Guido Taricco
LA RICERCA DELL’INTERIORITÀ ESPRESSA DAL TAOISMO, DAL BUDDHISMO-ZEN E DAL MAESTRO ANDREA
I maestri di saggezza che svilupparono il Taoismo ed il Buddismo-Zen avevano capito due cose essenziali:
l°’) Quando si ricerca la propria interiorità si è sempre più felici, perché si ha uno scopo nella vita, si ha un riferimento di sicurezza che non viene più dall’esterno, ma dall’interno: se si riconosce e si accetta la propria interiorità, si è trovato lì la propria protezione, la propria pace e sicurezza.
2°) Più, come esseri umani, si progetta e si esegue una ricerca della propria interiorità, tanto più si crea un contatto col proprio spirito, e meglio esso riesce a penetrare nella materia ed a trame maggiore conoscenza.
Il fine dello Spirito è lo stare a contatto con la materia, però il corpo umano non deve creargli barriere, ma facilitarlo (anche passivamente). L’inconscio diventa un inconscio dell’interiorità e in tal modo lo Spirito fluttua più agilmente e più facilmente (per un problema proprio tecnico) fra se stesso e la terra.
Mentre una fede esterna può cadere (per disinganno o per altri motivi), questo tipo di fede interiore non può spegnersi. Dare uno scopo alla vita significa però impegnarsi in un problema, in un fine, indipendentemente se lo si raggiungerà o meno; purché la vita sia colma, attiva, positiva, funzionale ad un problema di conoscenza.
Ed ecco che Lao Tze (604-520 a. C) nel 41° capitolo del Tao-Te-Ching, dice:
«Quando gli uomini di tipo superiore apprendono la verità e la via del Tao, cercano con tutte le loro forze di praticarla.
Quando gli uomini di tipo medio apprendono la via del Tao incerti rimangono e sembrano esserne consapevoli e inconsapevoli al tempo stesso.
Quando gli uomini di tipo inferiore sentono parlare della via del Tao se ne fanno grandi risate: se non ridessero, non sarebbe la vera via del Tao………»
Il Tao può essere identificato nel Principio di esistenza del-l’universo e dello spirito, dal quale scaturiscono le leggi, il Logos, il Dharrna buddhista, la Virtù (Te), mentre il termine `Ching’ significa ‘libro’. Difatti al capitolo 21° del Tao-Te-Ching si legge: «I segni della Virtù impareggiabile procedono soltanto dal Tao. Ma la sostanza del principio è indistinta e indeterminata, indifferenziata e inafferrabile, eppure in Esso sono latenti tutte le cose……»
Questi maestri orientali usarono molte strategie per parlare dell’interiorità, perché non è possibile definire col linguaggio umano ciò che è di là del linguaggio stesso. Infatti Chuang-Tzu a conclusione del 26° capitolo del suo libro dice: «Lo scopo della nassa è il pesce: preso il pesce metti da parte la nassa. Lo scopo della trappola è la lepre: presa la lepre metti da parte la trappola.
Lo scopo delle parole è l’idea: afferrata l’idea metti da parte le parole.
Come troverò io un uomo che metta da parte le parole, a cui indirizzare le mie parole?».
Nel buddhismo-zen, per esempio, troviamo che «Gutei, quando insegnava, aveva l’abitudine di tenere sollevato un dito; come un allievo gli poneva una domanda, lui, per tutta la durata della risposta, teneva alzato l’indice. Una volta un suo allievo, per prenderlo in giro, si mise a sollevare anch’egli il dito rispondendo ai visitatori che gli chiedevano quale zen insegnasse il suo maestro. Venutolo a sapere, Gutei afferrò il braccio del discepolo mentre teneva il dito alzato, e velocissimo estrasse il coltello e gli tagliò il dito. Il ragazzo con gli occhi pieni di lacrime fece per scappare, ma il maestro gli intimò: fermo!’ Il giovane si voltò, guardò Gutei e vide che questi aveva sollevato il dito. Senza rendersene conto, fece per imitarlo, ma si accorse che non aveva più l’indice. In quell’istante raggiunse l’illuminazione». Quale illuminazione provocò nel ragazzo? Non dobbiamo farci ingannare dalla parola “dito», ma gettare via il proprio «io» e rinascere in spirito (come diceva Gesù Cristo).
Bisogna precisare, però, che questi maestri avevano un’Anima «antica», cioé un’Anima ricca di esperienza accumulate in vite precedenti: in essa c’era un po’ la storia del mondo. La loro Anima, allora, si mostrava con tutta la sua saggezza, con tutta la sua antichità, anche se in quest’Anima molti ricordi erano scomparsi, ne restavano però le tracce fondamentali che naturalmente emergevano in questi casi, quando si è liberi dai condizionamenti umani e predisposti all’«ascolto» dell’interiorità. Inoltre essi praticavano particolari respirazioni ed esercizi, che si sono anche tramandati nelle arti marziali. Ed allora Lao Tze, nel capitolo 100 del Tao-Te-Ching, scrive:
«Preserva l’uno dimorando nelle due anime (anima spirituale e anima senziente):
sei capace di non farle separare?
Pervieni all’estrema mollezza conservando il ‘ch’i (energia vitale, o prana):
sei capace d’essere simile ad un bimbo appena nato?
Purificato e sincero, abbi visione del Mistero:
sei capace d’essere senza pecca?
Nell’amare il prossimo e nel governare lo Stato
sei capace di non far uso della sapienza seguendo il ‘non-agire’?
All’aprirsi ed al chiudersi della porta del Cielo (nell’inspirare ed espirare):
sei capace d’esser femmina?
Nel comprendere ogni conoscenza
sei capace di fare a meno della mente?
Non ostacolare la natura delle creature e nutrile,
falle vivere e non tenerle come tue,
opera e non aspettarti nulla,
falle crescere e non assoggettarle.
Questa è la misteriosa Virtù».
Nel Dhammapada (i versi della Legge) buddhista, al capitolo Pandita-Vagga (il saggio) si legge:
«Se incontri un uomo intelligente che ti indica ciò che va evitato, che ti riprende dai difetti, seguilo come se fosse un saggio,
un rivelatore di tesori; per colui che coltiva una simile persona viene il meglio, non il peggio……
Il saggio sempre gioisce nella legge resa nota dai maestri.
Coloro che sono preposti ai canali incanalana l’acqua,
gli arcieri scagliano le frecce, i falegnami lavorano il legno, il saggio guida se stesso.
Come la rupe massiccia non si scuote per il vento,
così pure il saggio non è mosso da biasimo o da lode.
Come il lago profondo, completamente calmo e trasparente, altrettanto sereni divengono i saggi nell’udire le verità della legge…»
Su questo argomento il Maestro ANDREA dice:
«Spingersi nella sostanza universale non è cosa da poco, nel senso che, tutto sommato, la ricerca di Dio è una ricerca che si fa dentro di sè. Perché così come è vero che il soggetto che parla, che cerca, è lo spirito stesso cercato (come ormai dovrebbe essere consolidato, almeno sul piano teorico), così il Dio cercato è il Dio che è nel soggetto stesso che cerca. In un certo senso questa considerazione è trina, perché la coscienza che cerca lo spirito è lo spirito stesso che cerca se stesso, ovverossía la propria identità; e il Dio cercato è all’interno di questo spirito che cerca Dio.
Alla fine, come vedete, il punto fondamentale della discussione torna al concetto di autoidentificazione. Colui che si autoidentifica in modo compiuto ed in modo totale ha dentro di sè il riconoscimento di ciò che è, perché l’autoidentificazione coincide con l’autoriconoscimento. Colui che si autoidentifica si autoriconosce, perché l’autoidentificazione è un dato, e il riconoscimento è un significato, proprio dovuto al fatto che questa entità, anonima direi, ha bisogno del proprio sè, del proprio trovarsi in se stesso.
Ricercare Dio al di fuori di questo segreto è il cercare il classico ago in un pagliaio: Dio diventa quasi introvabile per Le note ragioni che tra noi e Dio c’è un infinito e c’è uno spazio mentale che il soggetto non può colmare, perché il soggetto è finito nella sua indefinizione. Ciascuno di noi è un soggetto finito pur essendo infinito, e non c’è contraddizione. Nel momento in cui mi rappresento a voi ed a me, sono ben finito. definito, autoriconosciuto e riconosciuto. Ma nel contempo il mio esistere è un esistere dinamico: io sono una forza, ed essendo una forza in me tutto si modifica in maniera continua ed eterna, ed in ciò io sono infinito, indefinito ed indefinibile.
Ora tutto questo discorso ci porta all’enorme valore che noi assegnamo a ciascuno di noi, perché ciascuno è la dimostrazione del suo esistere e dell’esistenza di Dio. Soltanto un soggetto vivente come me e come voi può dare a Dio un senso, un riconoscimento: è la stessa identificazione che darebbe a se stesso, un processo non difficilissimo da capire. È questo il cammino nella propria sostanza: in cui dimentichiamo, si capisce, come la sostanza è costituita. Ma in questa sostanza ci muoviamo come soggetti che cercano un soggetto, come soggetti che definiscono un soggetto. E quindi è una procedura tutta interna allo Spirito, perché tutto è nell’interno dello Spirito.
Questo significa, ancora una volta, che noi, esseri sopravvissuti a noi stessi, nei vari momenti delle vite, siamo soggetti che possediamo quell’autonomia di moto eterno che ci riconnette alla grande autonomia dell’universo, e ci rende simili a Dio nel momento in cui riconosciamo la nostra eternità e la nostra non-morte. E’ il principio conseguenziale della nostra vita eterna: qui tutta giocata veramente non sulle descrizioni esterne dei poeti e delle religioni, ma nella nostra sostanzialità d’esistere, nel nostro trovarci a tu per tu con un noi stessi, ovviamente completamente modificato rispetto a ciò che si intende, umanamente, per ‘personalità’ e per ‘identità’».
G.T.
Questo e l’ideogramma del Tao che viene identificato come principio di esistenza dell’universo e dello Spirito Dal Tao scaturiscono le leggi, il logos, la via, le virtù, le norme, la ragione… Tuttavia, secondo tutta la tradizione orientale il Tao è inesprimibile e non ha nè suono, nè forma, nè definizione.
Dal Tao al silenzio della fenomenologia
Il TAO che ha generato l’universo è costituito da Yin e Yang, cioè dal principio femminile e da quello maschile.
La sua natura si può conoscere attraverso l’osservazione della realtà e delle sue leggi, ma per capirne il principio occorre creare il vuoto mentale, dal momento che la via del Tao non è una tecnica.
Il TAO presiede al divenire, non è nè bene, nè male ed è impersonale, tanto che è anche indicato come il «Senzanome». Secondo i filosofi (benché esistano varie concezioni del TAO) il principio generale del TAO è l’abbandono anzichè l’azione.
Però secondo la cultura del CIP l’abbandono è, sì, una tecnica fondamentale perchè ritorna al principio del silenzio interiore, ma questo abbandono è possibile solo quando si sono superati i condizionamenti e le trappole psichiche, cioè dopo che ci si è inoltrati nel cambiamento. Fino a quel punto il cambiamento si può ottenere con l’azione del lavoro psichico e con la volontà.
In un certo senso la via del TAO è lo stadio finale del-l’uutorealizzazione e del cambiamento e coincide con quanto in fenomenologia è oggi conosciuto come tecnica dell’epochè (Husserl) e del silenzio. Ma «il tempo della sospensione, che è giustamente il tempo nulla del silenzio — dice il filosofo Pier Aldo Rovatti — è tuttavia (anzi: proprio per questo) un tempo altro, altro rispetto alla sintassi abituale degli ora con cui il soggetto si riconosce necessariamente come un’identità. Poiché in questo tempo della sospensione c’è qualcosa di eminentemente soggettivo (addirittura un possibile ritrovamento), è proprio il soggetto a esperire in se stesso un rivolgimento radicale e rischioso: revoca di ogni difesa, spaesamento. Bisognerà dire allora, prosegue Rovatti, che questo tempo è una sporgenza del soggetto al di là della sua abituale coscienza di sè. [omissis] Il soggetto esplode fuori di sè nel momento stesso in cui costeggia il tempo vuoto della propria mortalità. Husserl avrebbe considerato tutto ciò come un’infondatezza esistenzialista: tuttavia non può impedirsi di procedere verso il paradosso e l’enigma. D’altra parte, Heidegger, può descrivere l’esperienza fenomenologica, impedendosi di comprendere che al di là della coscienza vi possono essere altri livelli di soggettività; per esempio quel livello che egli cerca di far valere come il suo. Così evita ogni volta di darci direttamente ragione della propria esistenza di pensiero».
C.P.