L’immortalità dell’anima nel Fedone
Nel celebre dialogo platonico sono contenute queste tre tesi:
— Non c’è vita senza anima, in quanto il corpo senza la mente che ne guida gli atti e i comportamenti, è un involucro vuoto; — L’anima esiste, ma esiste quale indicazione — come dira più tardi Galeno — per mettere a punto, materializzandolo in un corpo, il siste-ma. Dunque la realtà dell’anima non è quella di un corpo; — Se l’anima non è corpo, non è corruttibile, dunque è immortale. Dalla terza tesi scaturisce, in Platone, una significativa inferenza: se è mero soma di un processo, che è reale ma incorporeo, allora il corpo è una sede provvisoria, il che, in concreto, significa che l’anima poteva incarnarsi in un altro corpo (come nella tradizionale dottrina della metempsicosi, che, almeno in parte, ritorna nel “mito di Er” nar-rato nel X libro della Repubblica). Di fatto questa affermazione equi-vale a un assunto fondamentale, che può esprimersi così: l’anima o mente (in Platone i due termini sono sinonimi, in quanto per psyché (=anima) il filosofo intendeva “anima razionale”, in una parola la mente o pensiero) poteva trovare altro ricetto per dar inizio alla sua at-tività. Proprio per questo, tuttavia, un simile sito, in quanto limita, nel tempo e nello spazio di una vita individuale, un processo in sé illimi-tato, è riguardato alla stregua di una sede provvisoria, una vera e pro-pria gabbia o prigione in cui l’anima è caduta. Di qui il celebre mito della caduta dell’anima provocata da un suo remoto originario “erro-re”. Questo errore, che il mito ci aiuta a riconoscere come una confu-sa, ma non per questo affatto debole, traccia mnestica, è associato alla memoria, non consaputa e non presentificata, in atto ma latente, di quant’o l’anima avrebbe appreso in una condizione edenica originaria, talché il normale processo conoscitivo non sarebbe perciò, come si so-stiene nel Menone, che una mera memorazione progressiva. A questo punto si presenta un interrogativo, apparentemente senza risposta. Co-me è possibile che la mente o pensiero, essendo immortale, dunque perfetta, abbia, in un remotissimo passato, commesso “errore”? E’ possibile, in realtà, se per “errore” si intende non già l’imperfe-zione o la carenza di un agire, lo “sbaglio”, ma il momento imprevedi-bile di un processo. Non è stato forse un “errore” il big bang da cui è scaturito l’universo? Non sono forse “errori” i rumori di fondo che, in biologia, sono invocati per spiegare la genesi della nostra specie da un grumo di batteri attivi nel Kenya dopo la scomparsa dei dinosauri? L’anima o mente ha dunque “errato”, ma non sbagliato; Il proces-so, che aveva una dimensione cosmica, è andato avanti errando nel vuoto e alla fine si è somatizzato. Solo che se l’errore era dell’anima, del corpo era l’imperfezione e lo “sbaglio”. La memoria degli eterni veri può condurre l’uomo a vedere come esito di una colpa commessa in altro luogo la caduta nel corpo, ma è altrettanto vero che la forza del processo originario è tale — è questo l’implicito discorso del Fello-ne — che può riprendere in qualsiasi momento superando le incertezze e le imperfezioni della sua sede provvisoria. L’anima può concreta-mente condurre l’uomo alla speranza di vivere ancora in un altro cor-po: ma questa speranza, che scaturisce dalle imperfezioni del corpo e dalle sue seduzioni, nasconde una verità ben più profonda: l’uomo, co-me mente, non ha alcun bisogno di un’altra vita: di fatto egli, o meglio la sua mente, è già immortale. A questa immortalità può semmai fare riferimento per modificare atti e comportamenti e creare una dimen-sione della comunicazione umana, una pólis, che sia degna della sua mente.