INCARNAZIONE E REINCARNAZIONE

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    Se stiamo alle cifre, secondo aggiornamenti statistici molto recenti, e cioè al 1994, su una popolazione mondiale di circa 5 miliardi e mezzo di individui, legati in qualche modo ad una fede religiosa, più del 25% delle persone crede nella reincarnazione: vale a dire circa un miliardo e mezzo di persone.

   Una indagine della Gallup (che è come la nostra ISTAT) ha accertato che negli Stati Uniti vi crede il 26% della popolazione, mentre l’Eurobarometer, in una ricerca dell’autunno 1989, ci dice che vi crede il 21 % degli europei; ma ciò che colpisce è il dato che credono nella reincarnazione il 31% dei cattolici e il 37% dei protestanti, vale a dire che fra la sola popolazione cristiana stimata nel mondo (al 1994) su 1.883.000.000 fedeli, ben 640 milioni abbracciano la fede nella reincarnazione.

    Dunque, una fede affatto marginale (come a volte si tenta di far credere) che non può essersi fondata su sole spinte irrazionali o nella esclusiva volontà di voler credere in un ritorno alla vita umana per paura dell’autodistruzione!

  Non cederemo, tuttavia, alla tentazione di una costruzione aneddotica e fascinosa della reincarnazione poiché vi sono sostanziali problemi a cui dover badare e che si riassumono, ma molto sinteticamente, in alcuni punti ai quali, tuttavia, non si può che rispondere brevemente, date le circostanze che non danno troppo spazio.

    Meglio, quindi, entrare in argomento sgombrando subito il campo da alcuni obiezioni non molto acute, per la verità, ma che continuamente e puntigliosamente ritornano ad ogni occasione.

1) Come rispondere all’obiezione che non può essere esistito qualcosa di cui non si può avere alcuna memoria?

2) Perché si dovrebbero subire conseguenze di un passato di cui non si è coscienti? Non potendosi stabilire identità fra due coscienze incomunicabili (di due corpi diversi cioè) non potremmo espiare colpe precedenti perché non si può pagare per colpe di cui non si ha coscienza e ricordo.

   Cadrebbe, con l’amnesia totale, la responsabilità la quale è legata alla coscienza personale.

3) Si potrebbero anche valutare, fra le obiezioni, i quattro principi escatologici cristiani: morte, giudizio, Inferno e Paradiso i quali, come è noto, dal XII secolo diventarono cinque con l’introduzione del Purgatorio; oppure lo stesso concetto di rinascita, quale appare nella dottrina buddhista. Ma preferirei tralasciare tutto ciò, poiché mi appaiono argomenti di fede e non di logica, e la logica e la fede, si sa, difficilmente vanno d’accordo.

* * *

E allora tentiamo le risposte:

1a  obiezione — Come può essere esistito qualcosa di cui non si ha memoria?

    Noi abbiamo percezione di noi e prova della nostra esistenza perché abbiamo l’intima consapevolezza che, nonostante qualsiasi variazione del corpo (nelle emozioni, negli affetti, nel ricordo, nel tempo e nello spazio), noi siamo sempre noi. Questo valore dell’interiorità noi lo utilizziamo anche nelle tesi della soggettività in contrapposizione all’oggettività neurologica che vorrebbe la coscienza quale epifenomeno del cervello. Ma se questa continuità della coscienza spazio-temporale dovesse mancare, a causa della morte cerebrale, come potremmo sostenere che essa continuità invece, ci sia tra una vita e quella precedente?

    Intanto le affermazioni che abbiamo appena sentite sono parzialmente false, prima di tutto perché la nostra coscienza non è costituita solo dall’auto-percezione neurologica ma anche da un insieme di esperienze, di scelte, di pulsioni e di realtà interiori che si sono costituite o, meglio, esistono, al di là. della nostra volontà e della nostra coscienza stessa; cioè noi siamo principalmente il frutto del nostro inconscio e di questo inconscio (che ci domina con i tratti autentici del mistero!) non solo non conosciamo il linguaggio, ma neppure le minime regole sintattiche con cui è costruito.

    Ma è fondamentale la seguente riflessione: noi abbiamo percezione di noi, ma non il ricordo di noi, tanto è vero che della nostra vita non ricordiamo che pochi episodi: la maggior parte della nostra esistenza è sepolta in una memoria che tacerà per sempre o potrebbe venire alla luce solo con la narcoanalisi o con una regressione ipnotica.

    Dunque noi non abbiamo memoria neppure della nostra vita attuale: questo fenomeno dell’oblio Freud lo defini “rimozione”: benché suoni paradossale, noi non ricordiamo neppure di essere nati, benché questo sia un fatto certo.

  Eppure, nonostante la dimenticanza quasi totale di noi, il senso della continuità dell’Essere è un principio che ci appartiene, come vedremo più avanti.

    Ciò significa che il ricordare, in termini di conoscenza spazio-temporale — non è affatto necessario per stabilire una continuità della coscienza. Se io non ho memoria della mia stessa coscienza di quando avevo vent’anni e finanche della mia stessa coscienza di mezz’ora fa, cade la principale obiezione (che e fondamentalmente di origine teologica) che, cioè, il non ricordo provi che non c’è reincarnazione. Il passato esiste anche se non ne abbiamo il ricordo e siamo noi, viventi ora, a provarlo con le nostre amnesie.

2a obiezione — Perché si dovrebbero subire conseguenze di un passato di cui non si è coscienti?

    Nessuno dovrebbe espiare colpe precedenti perché non si può pagare per avvenimenti di cui non si ha coscienza e ricordo.

    Ma come? Hanno insegnato a tutti noi che nasciamo con il gravame di un peccato originale di cui non sappiamo e non ricordiamo assolutamente nulla e poi si pretende di confutare la reincarnazione affermando che non possiamo rispondere, in questa vita, di colpe commesse in una esistenza precedente?

   Se non abbiamo coscienza degli atti è chiaro che non possiamo avere responsabilità postume, ma ora l’obiezione diventa fondamentale.

    Infatti questa obiezione è della teologia cattolica la quale ci insegna che l’Anima è creata da Dio al momento del concepimento e dunque non preesiste alla vita del corpo, e vita e morte sono i limiti massimi entro i quali si svolge l’esistenza. L’uomo, in altri termini è prigioniero della Storia.

     Se l’Anima è creata al momento del concepimento, allora che senso avrebbe il battesimo, dal momento che quest’Anima non può essere purgata da alcun peccato originale perché all’epoca della “caduta” essa semplicemente non esisteva ancora e non potrebbe, quindi, essere chiamata ad alcuna responsabilità?

     Ma chi è che parla di responsabilità?

   La verità è che, abituati a parlare continuamente di peccati, di giudizi e di redenzione, si sono creati due idoli teorici: il bene e il male, in eterna lotta, ed hanno inscritto la vita degli uomini in un solco di terrore e di smarrimento senza preoccuparsi di chiedersi se non ci sia, nella vita, uno scopo ben più alto e diverso da quello di doversi reggere in equilibrio fra il bene e il male, tra peccati e penitenze, cioè tra Dio e Satana.

   Qualcuno si è mai azzardato a pensare che, forse, lo scopo della vita si chiama conoscenza, cioè la pulsione a definire se stesso e il mondo intorno al Sé? Oppure che la vita non si può ridurre ad un passivo meccanismo di difesa, ma è una realtà attiva, propositiva, una pulsione a capire, sperimentare, conoscere?

* * *

    Sgombrato il campo da questi argomenti fastidiosi, ora interessiamoci, invece, a questa domanda: chi o cosa si incarna e si reincarna?

    Col semplice porre questa domanda si apre un ventaglio incredibile di discussioni con le quali entriamo direttamente nel territorio delle neuroscienze e in una nuova metafisica, dal momento che noi lavoriamo sul paradigma dell’esistenza di una struttura che malvolentieri definiamo Anima la quale, presumibilmente, (secondo il predetto paradigma) è una funzione retro-mentale, sostenendo, nel contempo che, invece, la mente è un prodotto del cervello.

    Se si vuole, il paradigma va al di là di Cartesio che del resto, oggi, comincia anche ad essere attaccato dai neurofisiologi i quali — forse non completamente a torto — non accettano la divisione in res cogitans e in res extensa, poiché la mente operativa, quella del quotidiano, per capirci, sembrerebbe essere piuttosto una manifestazione di reazioni fisio-chimiche della rete neuronale che una struttura immateriale.

    Ma noi non stiamo parlando della mente e della coscienza comune, cioè quella che determina l’auto-schema corporeo e psichico. Perciò retro-mente indica un complesso di funzioni incardinate nella coscienza alta di sé, cioè in ciò che gli psicologi chiamerebbero l’identità.

    Tutto ciò ci porta automaticamente nel principio di soggettività il quale è strettamente interconnesso con quello di identità.

    Io sono io perché mi riconosco. Dunque la mia coscienza soggettiva è dotata di una identità che, tuttavia, solo io posso riconoscere.

   Straordinariamente il problema soggetto-identità sembra riproporre la vecchia querelle “essere ed esistere”. E’ possibile concepire l’essere senza l’esistenza?

     Allo stesso modo è possibile concepire la soggettività che non comprenda anche l’identità? Probabilmente è impossibile.

       Che cos’è l’identità?

  Varie sono le discussioni su questo argomento, ma noi addurremo l’indicazione classica per cui A è A e non è B. Io sono io e non un altro, la rosa è una rosa e non un geranio. Nel senso strettamente filosofico l’identità è un principio immobile ed è un principio dell’intelletto astratto (Hegel). In questo senso, essendo immobile, l’identità ha bisogno della coscienza soggettiva per poter entrare nella fase dialettica.

    La scienza non studia la soggettività, ma solo l’oggettività della realtà. La stessa filosofia ha generato equivoci — per esempio Abbagnano nel suo Dizionario di Filosofia — definendo “la soggettività il carattere di ciò che è soggettivo nel senso di essere apparente, elusorio o manchevole”.

    Lo stesso Hegel pose nella sfera della soggettività il dover essere in generale, nonché gli interessi e gli scopi degli individui in quanto — egli diceva — tutto ciò è “presente soltanto nella forma unilaterale del soggettivo…”

    La scienza oggi si interroga nuovamente sulla “coscienza” e si chiede se sia possibile uscire dalla soggettività o se sia lecito trattare della coscienza se questa non è obiettivabile. Eppure, se stabiliamo la correlazione soggetto identità, il nodo si scioglie. Se io esisto nella mia soggettività e nessuno può entrare in essa se non io stesso, se io stesso non posso negarmi di esistere pur trattandosi di me, se io mi riconosco e dunque sono una identità, è vero che non posso trasmettere a nessuno questo mio stato di coscienza, ma posso descriverlo, fino al limite poetico del mio linguaggio. E il linguaggio, fìnchè posso utilizzarlo, è un concreto dato fisico anche se, metafisicamente, mi rimanda ad altri significati.

    Inoltre posso “misurare” l’identità di un altro (come si fa con i test in psicoterapia) e quindi posso descrivere e implicitamente dimostrare che questa identità, a me estranea, esiste a vari gradi, confermando nel contempo, sia pure surrettiziamente — o come ipotesi di lavoro — anche la soggettività dell’altro.

    Ma anche l’altro può fare la stessa cosa con me e di conseguenza, se io posso provare che l’Altro esiste sia soggettivamente che come identità, poiché l’identità si lega indissolubilmente alla soggettività (e ciò è reciproco), perché non potremmo affermare che è oggettivamente dimostrata la soggettività? Attraverso l’autenticazione reciproca delle soggettività non siamo forse entrati in una oggettività circolare?

    Perché ci serve questo ragionamento?

   Ci serve perché l’identità è una funzione concreta del soggetto pur essendo costituita da caratteri a-temporali e a-spaziali: anzi l’identità è la modalità con cui la soggettività si mostra nel Sé e nel fuori di sé. Ci troviamo di fronte ad un paradosso formidabile. Non si tratta più di una identità da riferire ad una astrazione o ad una metafora, ma di un connotato reale. Se l’identità e la retro-coscienza sono disgiunti dalla mente cerebrale (la quale, invece, è temporalizzata), si pone immediatamente l’analogia con la struttura che stiamo identificando come Anima: ecco a cosa ci serve questo ragionamento!

    L’identità è perenne. Noi siamo sempre noi in qualsiasi condizione non patologica, mentre funzioni e pulsioni altissime sembrano del tutto distinte dalla mente ordinaria e dal linguaggio che conosciamo: alludo alla creatività, alla capacita di essere liberi, alla coscienza, all’immaginario, alla poesia, alla simbolizzazione, alla metaforizzazione, all’intuizione, all’intelligenza critica superiore, alla denotazione di significato che contrassegna la coscienza di Sé.

    La perennità dell’identità (noi sappiamo perfettamente di essere soltanto noi, dalla nostra nascita fino ad oggi) non appare paradossale rispetto alle funzioni cerebrali che, invece, sono esplicitamente temporalizzate, come lo è tutta la materia in generale?

   Se l’identità. e la soggettività della coscienza ci appaiono tangibilmente non spaziali e non temporali, se il loro costituirsi nel soggetto sembrano fuori dallo schema corporeo e dalla mente, perché non dovremmo chiamare Anima quest’insieme di funzioni che separano l’uomo dalla Natura e lo trasformano in Persona?

    Torniamo, quindi, alla domanda precedente.

    Chi è, allora, e cos’è ciò che si incarna e si reincarna?

   Siamo in un’area dove altro è il linguaggio e altri i riconoscimenti. Se è cosi, l’Anima, vale a dire ciò che è al di là della corporeità già ora, che pur siamo ancora viventi, è tutt’altra cosa da ciò che è stato supposto fino ad oggi. Quest’Anima ci appare estremamente astratta rispetto al piano della realtà della neurofisiologia ma, nel contempo, altrettanto esistente se accettiamo il presupposto che ad esistere, cognitivamente e ontologicamente, altro non è che il soggetto, la cui definizione si lega all’identità e alla coscienza soggettiva (dunque interiore) del suo in Sé.

    La vita è del corpo, l’esistere è del soggetto.

   Si pongono così le fondamenta di un’Anima per nulla astratta e metaforica, visto che con le funzioni interne della soggettività noi dobbiamo fare i conti tutti i giorni e che senza la nostra soggettività noi non siamo niente. Se l’Anima, tuttavia, è questa struttura significante al di là del linguaggio e dello spazio-tempo, è chiaro che tutta la storia della reincarnazione andrebbe riscritta, non nella aneddotica, ma nei fondamenti causali. Ricordiamoci che il tema dell’Essere attraversa tutta la filosofia, da Parmenide ad Heidegger e questi, richiamandosi proprio a Parmenide, ci parla soprattutto dell’esser-ci dell’uomo come atto presente, per cui il significato dell’Essere si rispecchia su se stesso in quanto l’uomo è l’Ente che si pone la domanda sull’Essere. E’ a quest’esser-ci che dobbiamo dare una struttura se vogliamo sottrarre l’Essere dall’epifenomenia, perché è questa struttura che si incarna e si reincarna. Ciò che appare astratto esiste! Altrimenti il pensiero non avrebbe senso. Esiste una struttura interrogante che vive eternamente la sua specularità di essente ed è presente sia in sé che nella storia dell’infinito presente e che, interrogandosi, vive e rivivifica il suo soggettivo esser-ci nella realtà: è questo ciò che si incarna e si reincarna. Non il fantasma di teatrale memoria, ma un significato che, diventato significante, cioè apparendo alla nostra coscienza, si è fatto, per così dire, carne, è diventato retro-coscienza quale noi la riconosciamo nei momenti in cui, uscendo dall’animalità quotidiana del vivere sociale, diventiamo creatori imitando Dio.

    Solo allora ritorniamo all’Essere, cioè a ciò che di noi è natura, per così dire, essenziale e abbandoniamo la natura corporale della mente.

   In quel momento, ma solo in quel momento, distaccandoci dalla coscienza neurale, di isolamento sensoriale, diventiamo l’unica voce dell’universo e usciamo dal ruolo marginale della vita perché dimentichiamo l’umanità e la natura e rientriamo nella dimensione sacrale ed escatologica, dimenticata perché schiacciati continuamente tra un’esistenza ridotta a regole e prescrizioni ed una conoscenza fatta solo di parole senza concreti riferimenti logici e nel continuo terrore della morte.

    Ma la morte concepita dal vivente è senza uno scopo, così come le vite sono senza scopo, se affidate alla misericordia di Dio, perché queste vite sono prive di progettualità attiva e volitiva, e non finalizzate al solo scopo che può interessare l’Anima, vale a dire la conoscenza della terrestrità.

    Vita e morte sarebbero funzioni tragiche prive di identita, giacché l’assenza di progetto chiuderebbe l’Anima nel suo nullismo. L’Anima, infatti, risulterebbe schiacciata da due nullità estranee, la vita dei corpi, come dicevo, asservita al sociale e, paradossalmente, la vita della morte con finalità e funzioni apocalittiche: da questa tragedia come si esce?

    Si esce restituendo il significato all’esistenza, un significato che non può appartenere, però, alla vita biologica la quale, come pura forza è, comunque, natura immotivata, finalizzata, sì, alla vita, ma non all’esistenza della coscienza.

    Ma il significato non può prodursi senza il soggetto che lo riconosce e lo mostra, così come l’identità determina la conoscenza e la Storia la quale, in tal modo, viene di volta in volta restituita all’uomo e sottratta all’ineffabile.

    In questa cifra il tempo dell’Essere non coincide con alcuna morte e con alcuna nascita perché, al pari di Dio — da cui sicuramente l’Essere promana — l’Anima è, dunque, non vive la temporalità e la spazialità. L’affermazione apodittica è critica, ma è incardinata all’identità la quale — come ho già detto — è un riconoscimento obiettivo e non soggettivo: perché specularmente ciascuno l’osserva in un altro. Se il tempo-spazio dell’Anima è lo stesso tempo-spazio di Dio, la morte non esiste e concettualmente non c’è alcuna nascita, per cui la reincarnazione è il naturale continuum dell’esistenza del soggetto i cui vari corpi appartengono a quella Natura umana con la quale l’Essere non ha nulla da condividere se non la necessità di uso — ogni volta che appare necessario — ai fini della conoscenza. Questo spiegherebbe perché il corpo e l’Anima possiedono linguaggi fra loro inconciliabili; il primo segue il tempo-spazio del regno della natura, il secondo l’atemporalità del regno universale.

    E’ chiaro che, a questo punto una sola vita corporale non ha alcun senso, perché l’esistere della coscienza superiore, cioè dell’Anima, è iscritta in un continuum….

    La morte esiste solo perché noi non riusciamo a fermarla, nè riusciamo a concepire la realtà al di fuori della Storia.

    Se riuscissimo (e non è detto che non accadrà) ad arrestare la decadenza delle cellule, l’Anima non avrebbe bisogno di reincarnarsi. Invece, allo stato attuale del corpo, nessuna vita basta a se stessa, perché in una vita non si possono realizzare tutte le esperienze possibili e quindi sarebbe una vera ingiustizia se si dovessero ignorare le esperienze mancate e tutto ciò che, a nostra insaputa, è depositato nel nostro inconscio, e che non si è potuto realizzare per mancanza di tempo della vita.

    Non lo sappiamo, ma è possibile che nel nostro inconscio siano depositati gli stessi archetipi universali di cui parlava Jung e che essi siano lo stesso orientamento dell’Anima nel corso del suo misterioso cammino.

    Siamo quindi, pur vivendo così limitati, già fuori dalla Storia.

   Ma restare esclusivamente nella Storia è stare nella morte perché i soggetti, che nel loro insieme costituiscono la Storia (senza soggetti c’è il nulla) e i contenuti stessi della Storia, sono condannati a morte. La loro sopravvivenza — in senso storicistico — è una sopravvivenza anonima, priva di identità umana.

   D’altra parte è proprio l’assenza della Storia (almeno come la conosciamo noi) e l’assenza del linguaggio quale noi abbiamo, a rendere l’Anima una struttura non ancorata al tempo e allo spazio e che, quindi, in modo del tutto naturale può attraversare tutte le vite che vuole come navigante e bussola di sé, un puro esistenziale libero totalmente dal nascere e dal morire, anche se vive momenti del corpo e del transeunte. L’Anima, infatti, non ha la vita nel senso umano del termine e non può, quindi, avere la morte. Nascita e morte sono termini che non possono avere senso poiché l’Anima è il soggetto che si auto-rappresenta essendo un Sé in movimento eterno.

    Se non sostenessimo questo cadremmo nell’utopia del tempo. Samuel Beckett, nel celebre “Finale di partita” fa parlare un personaggio di nome Hamm che, ad una persona angosciata domanda: “Che cosa c’è? Che cosa succede in realtà?” E quello, di nome Clov, risponde meditabondo: “Qualcosa sta seguendo il suo corso!” (in “Il teatro”, Einaudi, Torino, 1967).

    Qualcosa sta seguendo il suo corso! Non c’è rivoluzione o apocaditticità in Beckett, poiché l’uomo storico che abbiamo conosciuto attraverso la tradizione è veramente un uomo che segue il suo corso, per cui Nietzsche non parlerà solo della morte di Dio, ma anche di quella del soggetto e l’Io di Nietzsche diventa obbligatoriamente un antropomorfismo, una finzione, un burattino che surrettiziamente diventa massa storica, per cui l’utopia e la speranza verranno poi riposte in un uomo totalmente nuovo, un superuomo, appunto, e non già nel vecchio corpo vivente svuotato di senso perché privato dell’identità.

    La risposta a Nietzsche è l’identità umana, cioè quest’Anima oltre il tempo, ma pur concretamente presente nel corpo attraverso le sue funzioni, per cui l’Anima nostra è quella di Plotino che poneva lo Spirito oltre il tempo e lo spazio, ma anche di Agostino che collocava ugualmente l’Anima fuori dal corpo, dal tempo e dallo spazio determinando, in tal modo, come è noto, la prima immagine individualizzata del misticismo cattolico.

   A questo punto il presupposto di un’Anima che viene più volte nel continuum dell’esistere, appare sempre più concreta, non riuscendo a vedervi alcuna opposizione o contraddizione purché si accetti il presupposto che lo scopo dell’Anima è quello di conoscere e che il principio di evoluzione sia il fondamento di tutto l’universo, e che quanto vediamo nelle leggi fisiche della natura, cioè l’evoluzione della specie, rispecchi lo stesso principio evolutivo nello Spirito, essendo verosimilmente unico il principio generale dell’esistenza.

    Cosa significa, per noi, evoluzione dell’Anima?

   Significa che l’Anima non è Dio, ma è della stessa sua natura. La sua pulsione è quella del percorso all’interno del divino; questo percorso non è un ritorno, ma solo un itinerario di viaggio.

   Nessuno torna in Dio: se dovessimo tornare ci annulleremmo in Lui, perderemmo la nostra identità e questa perdita coinciderebbe con la nostra vera morte. Se dovessimo morire come Anime, Dio ci avrebbe riservato, con efferato sadismo, una terribile crudeltà: di averci creati, illusi di un bene da raggiungere e poi ucciderci.

   Non ci consola il godimento passivo o venerativo di un Dio. Siamo esseri liberi e coscienti e nessuno potrà convincerci che la spersonalizzazione e la distruzione dell’Io critico e cogitante, possa coincidere con la felicità.

   Tuttavia non siamo così folli e arroganti da non capire che porteremo sempre con noi il desiderio del Padre perché l’Essere potrebbe non totalmente bastare a se stesso proprio perché non può essersi auto-generato dal nulla.

  Ecco perché ogni ricerca si inserisce nel viaggio e la stessa reincarnazione altro non è che un viaggio di ricerca in cui il concetto di Padre si inscrive nel desiderio del ritorno, nell’alveo intimo della soggettività, il luogo recintato dell’individualità esistenziale. Questo viaggio avviene nel liquido puro dell’estasi, nel miracolo dell’intuizione della conoscenza, nello smarrimento della ragione se ancora siamo viventi.

  Allora, e solo allora, parole e concetti come vita e morte, dolore e amore, essere ed esistere, soggettivo e oggettivo, incarnarsi e reincarnarsi non avranno più senso perché avremo la pienezza del nulla nel letterale significato dell’esistere senza contorni e definizioni che nascono dalla limitata visione intellettuale del soggetto.

   Ecco perché — e voglio ripetere in questa sede ciò che ho detto in un recente congresso — forzando al massimo il testo evangelico, nei “Sermoni tedeschi” Meister Eckhart prima leggerà in Plotino: “Surrexit autem Saulus de terra apertisque oculis nihil videbat” e poi tradurrà: “Paolo si alzò da terra e, con gli occhi aperti, vide il nulla… e questo nulla era Dio”.

  Per raggiungere questa condizione, questo deserto silenzioso da dove Dio proviene, bisogna svuotarsi, diventare nulla.

   Ecco perché Eckhart chiarirà ancora: “Poiché la natura di Dio è quella di non essere simile ad alcuno, noi dobbiamo necessariamente giungere al punto di essere niente, per poter essere trasportati in quello stesso essere che Egli è”.

  In questo modo l’unità con il divino si ricompone ed è qui il mistero finale fra lo Spirito e Dio: dello stare dentro e contemporaneamente fuori, contemplare ed essere contemporaneamente la stessa cosa contemplata, abbracciare ed essere abbracciati”.

  Ecco perché Eckhart potrà lucidamente concludere (e qui finisco anch’io): “l’occhio in cui io vedo Dio, è lo stesso occhio in cui Dio mi vede; l’occhio mio e l’occhio di Dio non sono che un solo occhio”.

  E’ a questo punto che entriamo nella nostra estasi ed è questa percezione di sé, lo ripeto, la “cosa” che si incarna e si reincarna.

  Voglio recitare ancora una volta una frase di Teilhard de Chardin: “Noi non siamo esseri umani che vivono un’esperienza spirituale. Noi siamo esseri spirituali che vivono un’esperienza umana”. In questo ambito, incarnarci deve per noi significare seguire il filo di Arianna interiore che cominciò nel tempo lontano in cui fummo misteriosamente posti nel mondo come coscienza e andare avanti anche controcorrente, come fanno i salmoni che seguono l’antico istinto che li spinge verso le foci.

                                                                                                   Corrado Piancastelli

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