CARLO ADRIANI
“AL DI LÀ DI QUALSIASI KARMA: VITA COME PROGETTO”
Nel libro ormai famoso, “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”, che ha per sottotitolo “Come mutano le idee della scienza”, Kuhn racconta che mentre cercava di scoprire la causa dell’aperto disaccordo che si verificava tra gli studiosi di scienze sociali circa «la natura dei problemi e dei metodi scientifici legittimi», fu portato a riconoscere il ruolo, che nella ricerca scientifica, svolgono quelli che da allora chiamò paradigmi. Con tale termine Kuhn indica «conquiste scientifiche universalmente riconosciute, le quali, per un certo periodo, forniscono un modello di problemi e soluzioni accettabili a coloro che praticano un certo campo di ricerca». (op. cit., Ed. Einaudi, 1994, pag. 10).
Se estendiamo questo concetto di paradigma anche ad altre strutture concettuali, vediamo che anche il Karma ha rappresentato un notevole paradigma.
Elaborato nel mondo indù in epoche antichissime, inizialmente col significato di azione sacrificale o anche come un valore di tipo magico insito nell’azione stessa, acquisì successivamente il senso di un’azione moralmente positiva o negativa che faceva conseguire meriti o demeriti che, secondo la dottrina della reincarnazione, venivano ricompensati o castigati nel corso delle catene delle esistenze. Specialmente nel caso in cui l’azione fosse stata di tipo negativo accadeva di dover subire un effetto in senso inverso che ripristinasse l’equilibrio turbato. In altri termini, ad una precedente attività moralmente negativa corrispondeva successivamente il dover patire una condizione eguale e contraria a quella precedentemente posta in essere. Tutte quelle azioni che avevano violato un’armonia ed un ordine morale generavano sull’autore del perturbamento una reazione che riaffermava con il suo effetto di ritorno l’inalterabilità e la giustezza di quello stesso ordine immutabile.
Il mondo antico pensò che le colpe commesse potevano assumere un duplice percorso: o investivano le generazioni successive, talvolta fino alla settima, prima di estinguersi; oppure, qualora non fossero state già scontate in quella attuale, avrebbero seguito il colpevole in una sua vita successiva. La prima è il riflesso di una concezione più antica che chiama in causa una responsabilità collettiva tipica delle società tribali, ma che può anche essere stata originata dalla pura e semplice constatazione del riprodursi di certe tare ereditarie, e questa concezione la ritroviamo presente anche nel mondo patriarcale, mentre l’altra sembra più legata ad un’evoluzione del concetto d’individuo. Una traccia evidente di queste due modalità è contenuta nel noto episodio del Vangelo (Giov. IX, 2), dove Gesù viene interrogato circa la causa per cui un uomo era nato cieco. «E i suoi discepoli gli domandavano: “Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, che è nato cieco ? “».
Dalla domanda si evince chiaramente che a quell’epoca due erano le teorie prevalenti sulle cause delle menomazioni, si riteneva che esse fossero dovute ad una punizione divina o
1) — per gravi colpe commesse dagli antenati; oppure:
2)— per colpe commesse dall’individuo in un’incarnazione precedente, secondo la Legge del Karma.
A questo proposito, Atkinson dice che «…non è possibile dare alcun’altra interpretazione a questo passo del Nuovo Testamento il quale attesta che l’idea della Reincarnazione era presente fra il popolo di quel tempo». (“La Reincarnazione e la legge del Karma“, Ed. Fratelli Bocca, 1951, pagg. 158-159).
Anche per le dottrine spiritiste ed occultiste, l’individuo, «rendendosi conto, nell’Aldilà, delle colpe commesse, cercherebbe volontariamente un’espiazione nella nuova esistenza per raggiungere un’effettiva purificazione» (U. Dettore, voce Karma, “Paranormale. Dizionario Enciclopedico”, Milano, Ed. Mondadori).
Da queste brevi note, il karma risulta essere il meccanismo giustificativo della reincarnazione. A quanto sembra ci si reincarnerebbe esclusivamente per essere ricompensati o, più spesso, per espiare una colpa commessa in un’altra vita.
Tuttavia nel solco stesso di questa tradizione culturale non mancarono voci critiche che videro il karman come l’azione attrattiva di tutte quelle incontrollate e cieche forze psichiche che inchiodano l’uomo al ciclo delle rinascite. Il karma è il peso che ci trattiene su questo fondo oscuro dove le vite si susseguono incessantemente, per cui occorre al più presto liberarsi dall’attaccamento al mondo che determina la catena delle esistenze. Il karman è una necessità che termina solo con la Purificazione e l’ascesi.
Nell’ambito della casistica dei fenomeni paranormali, particolarmente le precognizioni di morte hanno attratto l’attenzione degli studiosi.
Camille Flammarion riporta un caso notevole di precognizione delle propria morte che riguardò la giovane attrice Irene Muza. «Durante una seduta in cui essa era immersa in un profondo sonno ipnotico, le fu chiesto se vedeva ciò che personalmente il futuro le riserbava. Scrisse le parole seguenti: «La mia carriera sarà breve. Non oso dire quale sarà la mia fine; sarà terribile!». I partecipanti all’esperimento impressionati, cancellarono le parole prima del suo risveglio; dunque, coscientemente almeno, essa non seppe mai quale cosa terribile aveva per se stessa predetta. Parecchi mesi dopo, la pettinatrice le bagnava i capelli con una lozione antisettica composta da essenze minerali, allorché si lasciò sfuggire alcune gocce di liquido che caddero sopra un fornellino acceso, provocando una fiammata istantanea; il fuoco si propagò ai capelli e all’abito dell’attrice, che, in un secondo, si trovò avviluppata dalle fiamme e riporto bruciature tali che dopo pochi giorni morì all’ospedale». (“La morte ed il suo mistero”, vol. II, Ed. Studio Editoriale Insubria, 1979, pag. 133 ).
Flammarion dice che: «Queste forme di premonizioni, come fa rilevare in proposito Bozzano, raccolte e coordinate in buon numero, porterebbero a dedurre l’esistenza di qualche cosa di simile ad una “fatalità”, dominante in modo misterioso sui destini dell’umanità; a meno che non si voglia nell’occasione del detto episodio, ricorrere all’ipotesi della reincarnazione, secondo cui lo spirito umano avrebbe prestabilito liberamente, per uno scopo di espiazione o di prova, quella fine spaventevole». (op. cit., pag. 133)
Occorre rilevare come, in questa seconda ipotesi, accanto all’importante concetto di una scelta liberamente effettuata dalla donna prima di incarnarsi, ricorrono anche termini come: “espiazione”, “prova”, che ricalcano sia il paradigma karmico che quello religioso di colpa-punizione, espiazione-riscatto, delitto-castigo. Risulta del tutto evidente che ci si muove ancora nell’ambito di questi concetti.
Ciò è indicativo del fatto che dietro le parole ed i costrutti linguistici vi sono delle strutture semantiche più profonde che nascondono delle vere e proprie concezioni psicologiche del mondo, la cui origine si perde nella notte dei tempi.
Tornando all’argomento, va rilevato che le auto precognizioni di morte sono abbastanza rare, mentre quelle che riguardano la morte di altre persone sono molto più numerose, a giudicare dall’abbondante casistica che si è potuta raccogliere. E’ notevole il fatto che in moltissimi casi non solo è stata prevista la morte, ma anche le circostanze precise in cui essa sarebbe avvenuta.
Osborne, considerando le implicazioni di questi eventi, si chiede: «Come può essere prevista la morte di una persona, a meno che non vi sia dentro di noi una specie di “modello potenziale” che governa la nostra vita dalla nascita alla morte?… Solo postulando questo “modello interiore”… le strane precognizioni o premonizioni di morte diventano intellegibili». Ed è proprio supponendo l’esistenza di un modello interiore «concepito come un complesso “pensante”», che inevitabilmente «ci imbattiamo nel problema della sopravvivenza», dal momento che «il modello potenziale che starebbe alla radice di ciascuna personalità» dobbiamo giocoforza immaginarlo «come esistente prima della nascita del corpo» (A.W. Osborne, “Il senso dell’esistenza personale”, Ed. Astrolabio, 1970, pagg. 133 e segg.).
Sull’ipotesi del “modello potenziale” avanzato da Osborne, anche psicologi di grande profondità e spessore intellettuale hanno espresso idee sostanzialmente analoghe.
Jaspers individua «dietro le singole esistenze del sano e del malato, una struttura trascendentale che sottende il rapporto individuo-mondo… Ci si è in questo modo avvicinati al concetto di progettazione dell’esistenza come possibilità a priori dell’essere umano, con la conseguente caduta di ogni distinzione tra sano e malato». (G.P. Lombardo e F. Fiorelli, “Binswanger e Freud: malattia mentale e teoria della personalità”, Ed. Boringhieri, 1984, pag. 32).
Binswanger, a sua volta, fonda l’antropologia fenomenologica sulla base di due strutture fondamentali dell’esistenza umana: quella costituita dal fatto di essere-nel-mondo e quella di progettazione. E’ proprio «con l’utilizzazione del concetto di “progettazione”» che anche Binswanger supera ogni distinzione tra sano e malato. (op. cit., pag. 43). Per questi psichiatri, ogni loro paziente mostrava l’esistenza di un progetto di vita che emergeva anche sotto la forma della malattia, ma che era pur sempre espressione di quel particolare individuo.
La constatazione di un “progetto” che presiede all’espressione di una qualsiasi modalità di vita umana, a mio avviso, è una conquista fondamentale perché implica che ciò che a noi può apparire a prima vista come insignificanza esperienziale, e ciò specialmente nel caso di pazienti affetti da gravi patologie mentali, risulta invece essere una realtà di vita eguale alle altre per valore e significanza esperienziale.
Ed è in questa esperienza del mondo, sia pure nella forma distorta della patologia, che la “struttura trascendente” o qualsiasi altra denominazione si voglia adottare, diventa una necessità logica da non potersi facilmente negare o accantonare. Questo è il punto cruciale che ci fa decidere tra l’insignificanza della vita o al contrario della sua significanza e del suo valore. «La vita dell’uomo è densa di significato, e perché non dovrebbe esserlo la morte?» si chiedeva acutamente Jung, e, in una lettera ad una destinataria anonima, scriveva: «Ho buoni motivi per supporre che le cose non finiscano con la morte. Sembra che la vita sia un intermezzo di una lunga vicenda. Esisteva già prima che esistessi io e continuerà molto probabilmente anche dopo, quando sarà finito quest’intervallo conscio in un’esistenza a tre dimensioni». Egli «vedeva la vita come segmento di un’esistenza che va infinitamente oltre gli anni vissuti. Perciò definiva la fine della vita come una “seconda nascita” (…) che vista dall’esterno ci appare come morte” e la stessa “cosiddetta vita” come “un breve episodio fra due grandi misteri, che tuttavia sono uno solo”» (M. L. von Franz, L. Frey-Rohn, A. Jaffè, L. Zoja, “Incontri con la morte”, Ed. Raffaello Cortina Editore, 1984, pag. 33). Il fatto è che se riteniamo che la vita abbia un suo significato “speciale”, allora non possiamo negare a nessuno questa fondamentale significanza, ma per poter riconoscere veramente e pienamente un valore alla vita dobbiamo per forza supporre una struttura trascendente e intelligente alla quale riferire la significanza di questo essere-nel-mondo-così e se siamo costretti ad ammettere una struttura trascendentale intelligente dobbiamo anche darle degli attributi, tra questi appunto la sua progettualità. Ma giunti a questo punto ed anche ammesso ed accettato che vi sia un progetto non abbiamo però compreso il perché ed il senso di tutto ciò.
E qui interviene una guida spirituale che ha allargato a dismisura l’orizzonte di quell’uomo che alcune filosofie moderne hanno concepito solo come un essere-per-la-morte.
Questa guida ha detto che attribuire o riconoscere un senso alla finitezza della vita dell’uomo, costringe a dover necessariamente ammettere una struttura retrostante che possa essere la destinataria del significato dell’esperienza che si è vissuta, ovvero è essa stessa la “cosa” che cerca, che programma e che conosce. Detto in altre parole, ciò equivale a dire che questa struttura, che per semplificare chiamiamo spirito, si incarna avendo un suo programma conoscitivo. Ma il termine “conoscenza” è stato finora adoperato in un senso abbastanza generico, nebuloso, talvolta con accentuazioni di tipo intellettualistico, e nessuno finora aveva mai pensato di chiarire che si tratta proprio della conoscenza della materialità, cioè della cosa che è direttamente alla portata di tutti noi.
Prospettata così la questione, la Terra diventa solo uno dei tanti anelli di quel piano universale esterno allo spirito, che costituisce la materialità. Ed il karma?
E’ chiaro che non appena questa legge karmica viene inquadrata nel contesto di una teoria della conoscenza della materialità, molti suoi aspetti di tipo prevalentemente debitorio o compensatorio immediatamente prendono un altro significato ed un altro senso.
Infatti, la legge karmica assume tutta un’altra fisionomia se la si intende come un momento di una prassi conoscitiva, perché così si pone in piena luce la dignità, la libertà e l’intelligenza di un essere spirituale che sceglie ciò che è opportuno fare per acquisire, coi mezzi messi a disposizione dalla legge, la piena conoscenza dell’altro da sé, nella fattispecie la materialità.
Sicché il karma diventa null’altro che l’applicazione di una procedura conoscitiva che si ripete fino alla completa padronanza del piano di vita in cui lo spirito si muove. Allora possiamo dire che per quanto spiacevole possa sembrare al soggetto vivente la “sua” situazione karmica, essa invece non appena è considerata come una condizione opportuna e necessaria di conoscenza, risplende di tutta la sua importanza, trasformando il soggetto da vittima di un destino avverso e cieco in un protagonista che è chiamato ad una attiva partecipazione al suo vissuto. In questo modo l’individuo si vede trasformato da quell’essere umiliato che vive uno stigma divino, quasi come un colpevole ed un reietto, in un essere che pure nel suo dramma intravvede un fine che gli è dato di afferrare e di comprendere. Anche la più difficile condizione incarnativa acquista così un valore che prima non aveva ed un significato che correva il rischio di essere smarrito e perduto.
Rollo May, psicologo e psicoanalista, esponente di spicco della psicologia umanistica, si ammalò di tubercolosi e dovette essere a lungo ricoverato in un sanatorio; egli dice che questa fu una esperienza fondamentale della sua vita che gli permise non solo di “comprendere” l’angoscia, ma anche di “conoscerla”. Ebbe modo di osservare che tutto sta «nel come gli individui si mettono in relazione con la realtà della malattia. Alcuni si arrendono, e invocano letteralmente la morte. Altri fanno ciò che devono, ma si risentono continuamente del fatto che la “natura”, o “Dio” abbiano inflitto loro quella tal malattia… Questi pazienti in genere non muoiono, ma neppure guariscono… Altri pazienti, però, affrontano apertamente il fatto di essere ammalati molto gravemente, lasciano che questo evento tragico sprofondi nella coscienza attraverso innumerevoli ore di contemplazione, mentre se ne stanno seduti sui lettini nel portico del sanatorio. E cercano nella loro autocoscienza di capire che cosa in precedenza ci fosse di sbagliato nella loro vita perché dovessero soccombere al male… Sono coloro che recuperano non soltanto la salute fisica, ma che alla fine escono espansi, arricchiti e corroborati da questa esperienza». (R. May, “L’uomo alla ricerca di sé“, Ed. Astrolabio, 1983, pag. 115).
A questo punto, ed il caso di Rollo May è estremamente significativo ed istruttivo al riguardo, il karma diventa un elemento attivo nell’economia della vita umana e spirituale. Gli sottrae quell’aura sinistra di un obbligo punitivo imposto per ristabilire un equilibrio violato e lo inserisce all’interno di un discorso di opzioni e di scelte intelligenti che lo spirito esercita liberamente. Questa è una modifica radicale e rivoluzionaria che viene apportata ad un certo tipo di pensiero che concepisce ancora un Dio punitivo e vendicativo, o un sistema di leggi spirituali altrettanto punitive e vendicative. Questo nuovo paradigma comporta una enorme rivalutazione, direi anche etica, di tutte le vite, ma soprattutto delle situazioni incarnative più pesanti e penose.
In questo modo si comprende che in esse c’è uno uno scopo ed un fine e ancora più in fondo un essere, un ente, attento ed intento che nobilmente, oserei dire, accetta una condizione svantaggiosa per portare a termine un suo progetto conoscitivo
La dottrina del Karma, così centrale nel discorso della vicissitudine delle disuguaglianze umane e sulla giustizia divina, assume di colpo tutta un’altra profondità se è vista sotto l’angolatura di un percorso conoscitivo che lo spirito effettua nel ciclo delle esperienze incarnative e reincarnative.
Come ogni paradigma, questa innovazione rivoluzionaria, proposta dallo stesso mondo spirituale, non nega né esclude la visione precedente, ma la amplia e la porta a rivalutare il soggetto del conoscere che non sempre e non esclusivamente è il “peccatore” stigmatizzato e karmizzato. Così si recupera il momento attivo su quello passivo, il momento dinamico della dialettica della conoscenza che percorre tutti i poli e tutte le modalità esperienziali su quello della mera soggiacenza a poteri che ricalcano troppo da vicino quelli delle autorità della Terra.
Il valore della dottrina della reincarnazione risiede principalmente nell’ammissione esplicita del principio universale dell’evoluzione e in particolare di quella personale, principio assolutamente fondamentale che purtroppo risulta del tutto assente in alcune religioni universalistiche. L’evoluzione rappresenta, invece, quel o conoscitivo che lega una vita a quella successiva, ed il karma è uno di quegli elementi di ancoraggio che si presentano come vincoli, ma che è l’essere spirituale stesso a predisporre per garantirsi in qualche misura l’attuazione dello specifico programma incarnativo che gli interessa effettuare.
I fattori karmici appaiono come vincoli, ma sono posti a salvaguardia della conoscenza dello spirito.
Essi servono fino al momento in cui il tipo di conoscenza che si intendeva esperimentare è stata conseguita. A quel punto l’effetto del karma si è esaurito, anche se possono ancora verificarsi degli effetti residui, ma che non sono più vissuti con tutta quell’investimento emotivo e psicologico che contrassegnano il karma.
L’ancora che era stata fermamente posta per presidiare quella zona conoscitiva, e per evitare che la nave guizzasse via, allora può essere tirata, ma ciò non toglie che la nave possa ancora rimanere in zona.
Il karma, come incardinamento di un progetto di esperienza non risponde, allora, unicamente alla legge di causa ed effetto, ma rappresenta piuttosto l’impegno che ciascuno si è assunto prima di incarnarsi, quello cioè di voler fare precisamente un certo tipo di esperienze e di conoscenze. Ciò vuol dire che il karma lo si può concepire anche sganciato da un rapporto meccanico e necessitante di causa-effetto, come normalmente è inteso, per ricondurlo alla sua vera funzione, cioè quello di essere una modalità di azione a disposizione dello spirito per far sì che un proprio determinato progetto conoscitivo vada ad esecuzione, e ciò a prescindere da una situazione debitoria, che può pure esserci, ma, anche in questo caso, sempre intendendola come una situazione deficitaria nei confronti della conoscenza universale.
Parafrasando Rollo May, se noi definiamo per religione «l’assunto che la vita ha significato», allora «la religione o la mancanza di essa, si rivela non in qualche formula intellettuale o verbale, ma nel proprio orientamento verso la vita. Religione è tutto ciò che l’individuo considera il proprio interesse fondamentale». (op. cit., pag. 146).
In questa chiave, se il karma è concepito come il “proprio interesse fondamentale”, allora accettare il proprio percorso di vita ed affrontarlo e sperimentarlo pienamente, è un autentico atto religioso.
Questo nuovo paradigma ci permette di risolvere anche e meglio la questione della predestinazione. Con la reincarnazione e l’evoluzione, non c’è nessuna grazia elargita arbitrariamente da una divinità capricciosa, ma solo un lungo lavoro che porta come suoi frutti naturali una grande saggezza, un forte senso di responsabilità, una potente illuminazione etica, qualità queste che riconosciamo sempre a quegli esseri straordinari che sono stati, sono e saranno il lievito della Terra.
La predestinazione, in senso generale, è dunque soltanto l’esito di una scelta effettuata liberamente ed autonomamente da se stesso prima di incarnarsi.
Noi non siamo gettati-nel-mondo, ma esistiamo per conoscere e riconoscerci.
A questo punto viene rimesso in evidenza quello che fu l’ideale dell’umanesimo, cioè l’uomo che progetta la propria vita e le proprie esperienze e che, a mano a mano che le effettua, se le elabora criticamente e le fa sprofondare dentro di sé, le appercepisce e le assimila completamente. Per questa via può tanto inquadrare il proprio “interesse fondamentale” che emerge da questo suo stesso lavoro, quanto moltiplicare le occasioni di esperienza e produrre spiritualmente e conoscitivamente molto di più.
Sfruttare l’incarnazione fino in fondo può così significare andare oltre il programma prestabilito e prefissato, cioè andare oltre il proprio karma.
Per concludere i temi fondamentali della discussione sono: l’esistenza dello Spirito; la sua preesistenza all’incarnazione; la teoria dell’evoluzione come processo conoscitivo continuo; il programma incarnativo che prevede una conoscenza diretta che avviene attraverso l’esperienza, quindi l’effettuazione di alcune esperienze della materialità più congeniali a quel momento evolutivo; l’obbligo che lo spirito assume verso se stesso di non sottrarsi al suo programma una volta incarnato, con il relativo impegno di condurlo a termine, e questo è propriamente il karma. In quest’ultimo senso il karma ha un significato che supera quello che gli veniva assegnato tradizionalmente, ed è il nuovo paradigma la cui validità consiste nell’offrire molte soluzioni a molti vecchi problemi.
Carlo Adriani