(Da: Nel segno del Padre – Piccola guida per il credente imperfetto, Edizioni CIP, Napoli, Monografia 1995.)
La domanda “ma cos’è questo Dio?” è una di quelle alla quale solo un millantatore o un imbecille saprebbe dare una risposta certa ed esauriente. Una persona equilibrata e saggia, invece, non potrebbe produrre che ipotesi, ambiguità, dubbi, discorsi al limite della iperbole, frammenti e guizzi intuitivi: mai certezze, mai teoremi, e soprattutto nessuna garanzia.
Questo libro (Nel segno del Padre), in omaggio all’intelligenza, vuole essere, quindi, solo un discorso a metà che viene costruito come percorso di una mappa della quale non si intravedono né i contorni, né gli accessi, ma solo trasparenze di un bisogno interiore che spinge all’origine del pensiero: che per me almeno, si mostra nella epoché filosofica e nella metafora della poesia.
In tale modo l’interrogazione «Cos’è questo Dio?», diventa una sorta di «caccia al tesoro» di cui non è strettamente necessario né raggiungere né ritirare il premio, ma solo identificare qualche percorso.
Queste prime pagine si presentano allora, con tre frammenti di discorso; cos’è Dio dal punto di vista letterario, la formula del terzo escluso e il principio dell’epoché. Naturalmente tante e tante altre premesse si potrebbero fare: tuttavia, siccome uno dei problemi, trattando un tema di questa grandezza, è quello della semplificazione (ove possibile: e non sempre lo è!) meglio correre il rischio della riduzione che quello della sovrabbondanza che, spesso, anziché chiarire complica la testa specie di chi non fa professione di filosofia (ammesso che la filosofia sia una professione!) o di meditazione (se per meditazione s’intende l’abbandono e non certo la concentrazione!)
DUNQUE DIO: ma chi è?
Siccome nessuno sa chi realmente sia e se realmente c’è, si intende per Dio l’Essere più grande che si possa (umanamente) concepire o sulla base del ragionamento filosofico o sulla fede o su quella di rivelazioni di maestri spirituali.
Le prove esposte dalla filosofia, dalla teologia, dalla fede o dalle rivelazioni si dividono in prove:
a) costruite sui fatti d’esperienza e di desiderio: bisogno di perfezione, bisogno di dipendenza, bisogno d’amore, di salvezza, di redenzione, di protezione.
In un certo senso Dio potrebbe essere la proiezione di un desiderio del padre: forse un desiderio che nasce dalla natura interiore dell’uomo, una natura che reclama un contatto perduto con la nascita e che l’Anima ritrova attraverso il desiderio.
b) fondate su fatti della storia religiosa (consensum gcntium) e su postulati morali: istinto per un bene assoluto, bisogno di una giustizia ultima, coscienza, senso del dovere, necessità di dare una paternità oggettuale alla moralità ecc.
c) su postulati della ragione come gli argomenti filosofici, cosmologici, fisico-teologico, ontologici, teleologici e l’inconcepibilità del contrario.
Circa la natura di Dio ci si sofferma sugli attributi e non sulla sua struttura costitutiva. Questi attributi, da parte dei pensatori, vengono considerati di tipo impersonale (panteismo) o personali (teismo) ed elevati ai più alti gradi superlativi: eterno, onnisciente, giustizia infinita, bontà infinita ecc.
Una visione di Dio che, per esempio, reclama una fede cieca, credenza nei miracoli, oppure contenuti antropomorfici (profili storici e biografici di Dio e della creazione) sono considerati di carattere teologico e non metafisico, poiché la metafisica è trattata dai filosofi (non cattolici) in modo sufficientemente scientifico sul piano logico e non su quello della fede.
Il problema è, comunque, di una eccezionale complessità perché, contrariamente all’opinione degli scolastici (teologi che condividono una produzione filosofica, teologica e scientifica di origine medioevale, impostata intorno al cristianesimo) di Dio si dovrebbe parlare – senza mai nominarlo – solo per analogia, come sostiene il pensiero orientale specialmente orientato sullo Zen, poiché per via diretta tutto ciò che si afferma sulla natura strutturale di Dio non può che essere falso.
Secondo lo Zen, infatti, non c’è che il Tao e il Tao è una via: può essere trasmesso ma non può essere ricevuto. Può essere raggiunto ma non può essere visto. Come ha detto Chuang Tzù, il Tao è in una formica, in un coccio, in un escremento. «Il Tao che può essere espresso in parole – diceva Lao Tzu – non è l’eterno Tao».
Ad ogni buon conto la figura di Dio non esiste in queste filosofie, ma anche nel cristianesimo Dio resta l’Essere di cui non si può parlare. Lo sostengono i principali padri della stessa teologia e il cristianesimo lo ha dovuto adottare – essendo una religione ritualistica – il credo della Trinità per dare un senso materiale al rituale (non meditativo ma orante) dei propri fedeli.
TERZO ESCLUSO
È il principio del tertium non datur, vale a dire che A è B, oppure A non è B. Perché poniamo nella nostra premessa questo principio del «terzo escluso» che fa parte, come è noto, della logica aristotelica?
In questa logica si afferma che ogni proposizione (dotata, ovviamente, di significato) o è vera o è falsa. Oppure, detto in altro modo, di due proposizioni tra loro contrarie, una sola è utilizzabile. Questo principio, da Aristotele in poi, è talmente diffuso da essere entrato in tutti i sistemi logici e finanche nel linguaggio comune: una cosa o è vera o è falsa. La citazione del tertium non datur, non è peregrina perché nel nostro caso abbiamo varie proposizioni contrastanti. Per l’ateismo Dio non esiste, per il deista sì; per alcuni di Dio non si può parlare, per altri sì; per i personalisti Dio è soggetto descrivibile, per i filosofi Dio è indescrivibile. Chi ha ragione?
È vero, che parlando di Dio egli è in un modo e non in un altro, che se è giusto non può essere il contrario, che cioè non possiede la contraddizionalità?
Si può radicalizzare l’impostazione aristotelica fino a questo punto?
Questo principio, è bene dirlo, ha goduto di grande successo presso i logici e i matematici (per costoro le asserzioni sono vere o false indipendentemente dalla loro verità reale). Ma già nel Novecento il principio del “terzo escluso” è stato negato dagli intuizionisti i quali giustamente dicono che il principio è valido solo se si applica ad oggetti finiti, anzi a collezioni o insiemi finiti, ma è inapplicabile se esteso ad insiemi infiniti. Nella fattispecie non appare possibile far valere il terzo escluso nelle coppie oppositive, per esempio Dio esiste/non esiste, è finito/infinito, è assoluto/relativo, personale/impersonale, creato/increato ecc., trattandosi di coppie indimostrate nei loro termini opposti, per cui tutto il discorso su Dio, essendo analogico, non può dare nulla per certo. E’ questo il motivo per cui inviterei chi legge a predisporsi con questo spirito di servizio, nel senso di utilizzare la ragione senza comunque asservire questa alla negazione o, quando il suo istinto interno lo reclama, di abbandonarsi alla fiducia senza asservirla necessariamente alla fede. E inviterei anche a diffidare, come fanno i seguaci dello Zen, da coloro i quali affermano con certezza che le cose stanno in un certo modo e non nell’altro. Ecco perché, dicono i saggi, se incontri il Buddha uccidilo, perché non può essere lui. Noi non abbiamo alcun dovere di credere o non credere, perché non abbiamo alcuna certezza da cui far derivare un imperativo di accettazione. Ma, diceva il mio amico Giuseppe Berto, «non è necessario credere in Dio, ma cercarlo». Da qualche luogo della nostra memoria interiore, qualche risposta ci dirà come realmente, per noi, stanno le cose in quel momento. Però le risposte non si ottengono col solo interrogare, ma creando le condizioni dell’ascolto. «Quella voce», se c’è, non appartiene alla «lunghezza d’onda» dei neuroni.
L’EPOCHE’
Vuol dire «sospensione del giudizio». Pirrone sosteneva che, non potendo giungere alla verità, l’uomo deve sospendere il suo giudizio. Questa sospensione consentiva al saggio di restare imperturbabile rispetto alle cose (atarassia o imperturbabilità). L’epochè è il principio dell’atteggiamento filosofico di Husserl e degli esistenzialisti (Scheler, Heidegger) che si riconoscono nella fenomenologia. Il principio è di mettere tra parentesi tutto ciò che è soggettivo e psicologico, non per negarlo, ma perché diventi una «via» interiore di ricerca aperta, per scavalcare la realtà senza essere condizionati a dimostrare ciò che nella condizione di epochè si percepisce. L’invito all’epochè è quindi esteso non solo a Dio ma, intanto, anche a questa stessa monografia che parla di Lui, l’Innominabile per antonomasia che qui viene continuamente citato, tuttavia, per dovere di linguaggio non avendone un altro a disposizione. Ma, lo ripeto, l’invito non è alla passività, anzi è proprio il contrario. Via via che si leggono posizioni di filosofi o affermazioni poetiche o ragionamenti, ci si dovrebbe impegnare a seguire con l’occhio interno della mente quello che in ciascuno che legge si sta verificando. È questo il senso profondo della fenomenologia e dell’epochè. Osservare ciò che succede in sé senza analisi o critica ma lasciando che si crei uno scenario, dove sullo sfondo le immagini, le analisi o le critiche sorgano da sole, senza guidarle, selezionarle e incanalarle col pregiudizio o con le formule culturali. Ma se il giudizio dovrà essere sospeso, non per questo dovrà arrestarsi il fluire interno dell’anima che si sommuove e si dispone al lavoro dell’Essere: in questo modo il nostro interno si mobiliterà per produrre, nella percezione intuitiva della coscienza profonda, se non la soluzione almeno la partecipazione reale al problema. Partecipazione reale che vorrà dire autentico ascolto dell’altra voce che, in ciascuno di noi, diventerà un logos ed una pura espressività di quel mistero che sarà totalmente e chiaramente sciolto soltanto dopo la nostra morte.