DIVENTARE DEI PER SVEGLIARE IL DIO CHE É MORTO

DIVENTARE DEI PER SVEGLIARE IL DIO CHE É MORTO

1 – In «La gaia scienza» (1882) Nietzche già prefigura la morte di Dio (che giungerà al suo acme nei grido di Zarathustra): «Avete sentito di quell’uomo folle che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: «Cerco Dio! Cerco Dio!? E, poichè, proprio là si trovavano molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. «Si è forse perduto? disse uno. «Si è smarrito come un bambino’? .fece un altro. «Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? E’ emigrato? gridavano e ridevano in una gran confusione. L ‘uomo folle balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: «Dove se ne è andato Dio? gridò «ve lo voglio dire! L ‘abbiamo ucciso – voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto?

Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all ‘ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strofinare via l’intero orizzonte? Che mai facemmo per sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare.? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla?» [……] Dello strepitio che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo ancora nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dei si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!»

2 – Prima di Nietzsche la storia e la morte di Dio erano già stati mirabilmente indicati dal poeta Heinrich Heine (1797-1856). «11 nostro cuore è pieno di un fremito di pietà, perché è lo stesso vecchio Jehovah che si prepara alla morte. Noi 1 ‘abbiamo così ben conosciuto dalla sua culla in Egitto, dove fu allevato fra i vitelli e i divini coccodrilli, le cipolle, gli ibis e i gatti sacri…. L’abbiamo visto dire addio a questi suoi compagni d ‘infanzia, agli obelischi, poi alla sfinge del Nilo, poi in Palestina diventare un dio-re presso un povero popolo di pa-stori…

Lo vedemmo più tardi entrare in contatto con la civiltà assiro-babilonese; rinunciò allora alle sue passioni troppo umane, si astenne dal vomitare collera e vendetta, per lo meno non tuonò più per ogni minima inezia… Lo vedemmo emigrare a Roma, la capitale, dove abiurò ogni specie di pregiudizio nazionale e proclamò I ‘eguaglianza celeste di tutti i popoli; creò, con queste belle frasi, un ‘opposizione al vecchio Giove, e intrigò tanto arrivò al potere, e dall ‘alto del Campidoglio governò la città e il mondo: urbem et orbem… L’abbiamo visto purificarsi, spiritualizzarsi ancora di più, diventare paterno, misericordioso, benefattore del genere umano, filantropo….Niente ha potuto salvarlo! Non sentite la campanella? In ginocchio! Si portino i sacramenti a un Dio che muore».

3- Ma fino a che punto è morto Dio? Si può legittimamente parla-re, come fanno Nietzsche e Heine, di morte di Dio oppure di un Dio nascosto che si offre (alla lettura e alla visione) su altri orizzonti, di un Dio che, alla stregua di un segnale radio, è muto finché non c ‘à un apparecchio che lo decodifica? Erano di Dio i segnali che abbiamo cercato per secoli negli inutili cuori degli uomini e nei polverosi ragionamenti dei filosofi?

4- Si pensi: noi uomini siamo gli unici viventi a poter pensare e parlare della esistenza di Dio. E non perchè siamo vivi, intelligenti, colti e consapevoli di ciò che diciamo, pensiamo e facciamo (forse molte specie di animali potrebbero avere qualcosa di simile), ma perchè, pur avendo in comune con le altre cose finanche la nascita e la morte, siamo gli unici esseri viventi che sanno consapevolmente di essere nati e di dover morire.

Nessun altro essere vivente lo sa!

Sfido chiunque a dimostrare il contrario.

Ed è questa sottile e incommesurabile differenza a fare, di ciascu-no di noi, un essere completamente diverso da tutti i viventi. E’ sulla base di questa realtà ineccepibile che io posso nominare Dio e tentare di capire se c’è, dov’è e come è!

5 – Detto ciò, la mia identità di vivente è già accresciuta. Ora posso guardarmi intorno, vedere le opere dell’uomo, dal bus che passa, al lavoro dei computer, ai grattacieli pensati dagli architetti, alle tele dei musei di Firenze e al semplice ragazzino che cammina sul motorino. Non c’è più nulla, in costruzione o nell ‘uso del concreto vivere storico o quotidiano, che non sia il prodotto di questo stesso uomo che, come dicevo prima, è 1 ‘unico a sapere che dovrà morire. E, ciò nonostante, è l’unico a potere e sapere gestire l’immenso materiale della vita e ad accrescerlo con soluzioni nuove in costante cambiamento inventivo.

Questi stessi uomini, così intelligenti e così stupendamente auto-nomi, hanno essi finanche il potere di gestire la vita e la morte di altri esseri umani, di saldare catene intorno ai corpi, di uccidere attraverso guerre e rivoluzioni, di salvare un morituro sul tavolo operatorio, di debellare malattie micidiali e, nel contempo, distruggere ecologicamente il pianeta sul quale vivono. Questi uomini sono diventati capaci di gestire terribilmente la morte e stupendamente la vita. Nessuno avrebbe scommesso un soldo sul primo cavernicolo di appena pochi secoli fa.

In tutti questi eventi appena descritti c’è sempre stata, tuttavia, una totale assenza di Dio: c l’uomo che ha deciso, a volte liberamente, più spesso obbligato da altri suggerimenti e da altri progetti, oppure c’è una regia occulta cd invisibile per cui siamo pupazzi guidati verso un fine di cui c’è vietata la conoscenza?

Questo stesso uomo, di cui pure ho esposto il merito di una auto-coscienza eccezionale, appare comunque, razionalmente parlando, l’arbitro incontrastato del destino: di Dio non resta nulla, di Dio, secondo tutti i parametri interpretativi che conosciamo, non appare traccia alcuna per il mondo.

Guerre e miserie, uccisioni in massa, distruzione di interi ambienti terrestri, avvelenamento dei mari e dell’atmosfera, violenze inaudite su gente indifesa, perfidie economiche senza scrupoli, arricchimenti e povertà a contrasto, non hanno mai visto il gesto sacrale di un dio uscito dal nulla a fermare l’orribile cannibalismo dell’uomo: mai, mai! non sempre il nostro grido è stato peregrino, voluttuario o retorico; più spesso è stato un grido di dolore.

Ti abbiamo chiamato, padre; dal fondo di prigioni, uomini e donne nelle mani di avidi padroni, ti abbiamo invocato nel nome dei popoli messi in catene e sul letto di figli orrendamente morti finanche nel tuo nome, ti abbiamo amato e benedetto come Cristo sulla croce mentre tormentavano le nostre carni, abbiamo pianto, supplichevoli, che salvassi i poveri bambini, gli innocenti di Erode e delle camere a gas, o nelle città e nelle pianure incendiate, bombardate del furore dei sadici, abbiamo invocato la tua giustizia per il mondo povero che muore di fame mentre i ricchi ingrassano portando ceri nelle chiese. Padre, padre, è troppo lungo, è troppo ingiusto il tuo silenzio, dura da troppe centinaia di secoli perché tu possa vantare diritti e chiedere inutili preghiere che non esaudisci mai, è troppo crudele questo silenzio, la tua assenza è più orribile della perversione, è più cattiva della malvagità, più nera del fondaco nero che si è creato nei nostri cuori. Non un segnale, non un piccolo cenno, non una luce, non un leggero battito di ali di una minuta farfalla che venisse a farci sognare l ‘incredibile desiderio che ha consumato il nostro dolore di solitudine, padre, padre infinito che ignora il figlio, corra ‘è possibile un tale rapporto in cui qualcuno di noi piange senza una carezza consolatoria, senza una luce lontana che gli indichi una direzione, un incantamento….

Non c ‘è neppure un soprassalto di pietà nella tua mente?

Se, dunque, dovessi dire che Dio è morto nel momento stesso della creazione, non sentirei un solo senso di colpa: forse Egli si è dissolto nella sua stessa Genesi?

Se gli uomini hanno chiesto perdono per l’orrore di troppi secoli trascorsi col sangue, fornendo corne contropartita all’eccidio il frutto della creazione dei suoi inventori e dei suoi cantori, dalla parte di Dio non è mai venuto un segno, un segnale riconoscibile, un drammatico gesto fenomenale che mostrasse una presenza: sono qui, figli, sono qui!

In questo sacro silenzio dell’universo cogliamo il segno di un Dio che è morto o di un Dio che non è mai esistito o di un Dio che parla ad orecchie che non sanno udirlo?

O forse il grande segnale di riconoscimento siamo proprio noi, fi-gli di ignoto nell ‘anima, siamo la Sua voce che per un incanto ammaliatore non riconosciamo? La ricerca della nostra identità non potrebbe essere un desiderio del Padre sconosciuto della cui natura, identica alla nostra, ci sfuggono i contorni?

E se il ricoscimento della Sua esistenza passa attraverso il ricono-scimento della nostra esistenza interiore?

E se per conoscere un padre, è fondamentale prima acquistare l’identità interiore, là dove con altro linguaggio si accede al giardino perduto?

6 – C’era un punto di incrocio prima dell’avvento della teologia, uno spazio sacro che poi è scomparso, forse quello che Tcilhard de Chardin chiamava ambiente divino: quello della percezione del magico che legava l’uomo al cosmo a[ traverso una interiorità oggi praticamente scomparsa. L’uomo, come individuo, ora rischia di scomparire. Non c’è solo una responsabilità della massificazione industriale e pubblicitaria, cioè di una gestione aziendale e capitalistica del vivere, ma anche una responsabilità teologica gravissima, almeno in occidente. Il modello di una religione che reclama obbedienza e ottunde ogni critica ha tolto all’uomo la propria individualità restituendogli il senso del gregge e non della libertà.

Essendo gli uomini soggetti coscienti nati autonomi, anche in que-sto senso dobbiamo dire che nell’uomo Dio è morto?

C’è un’affermazione di Paul Van Burer per il quale «il cristianesi-mo riguarda l’uomo e non riguarda Dio. E, poichè qualsiasi cosa che parla di Dio è futile in quanto non abbiamo nessun metro culturale per parlare dì Lui, sarebbe opportuno anche la teologia non parlasse più di Dio».

Thomas Altizer afferma, poi, che il Dio trascendente divenne Cri-sto e che, come tale, morì nella sua stessa crocifissione. Altizer ci dice che l’annuncio della morte di Dio dovrebbe stare al centro del dibattito culturale e che lo stesso cristiano dovrebbe fare di questa predicazione un motivo di vanto.

Un altro modo di intendere la morte di Dio nasce dall’analisi del comportamento sacrale degli individui. I modi con cui gli uomini si riferivano al divino erano relativamente liberi e spontanei con un rapporto diretto fra la ragione e l’intuizione. Oggi questo modello è corroso: forse è totalmente obsoleto.

La religiosità è diventata una trasmissione culturale, finanche inse-gnata nelle scuole e non vissuta nell’esperienza della vita.

Tutti i modelli religiosi sono ormai ritualizzati e non percepiti co-me unione col divino, per cui l’esperienza del sacro non è più trasmessa o vissuta, ma istituzionalizzata come comportamento sociale (vedi il battesimo, il matrimonio, la messa, l’estrema unzione, ecc.) carico di tutte le valenze di ambiguità, di gioco e di falsificazione proprie di un qualsiasi galateo sacro.

In un certo senso la simbolizzazione (potente elemento nel gioco del sacro e del profano) concerne i riti e i gesti del quotidiano e non la sostanza dei contenuti: in ciò è l’inganno che coinvolge la stessa fede.

I cambiamenti sociali, dall’urbanizzazione alla massificazione tec-nologica, la cessazione dell’ignoranza per la massiccia informazione, la crisi dell’umanesimo a partire dalla rivoluzione scientifica, hanno poi praticamente volatizzato il plafond culturale entro il quale si sperimentava il senso del sacro indipendentemente da ciò che era (nella realtà storica) la teologia vessatoria dalle crociate in poi (almeno per il cristianesimo) e dai milioni dì morii provocati dalla violenza e arroganza religiosa in più partì del mondo e in massima parte della chiesa di Roma.

Se Dio agonizzava, per esempio, fra i martiri delle città incas rase al suolo dai cosiddetti cristiani o sui roghi eretti dall’inquisizione in decine di città europee come ceppi di barbarie protette da una croce, in questo senso il Dio dei cristiani o era morto o era complice e, dunque, eticamente responsabile proprio perché eletto padre putativo dell’intera cristianità

Se Dio non è metafora ma, come per i cristiani, reale e sacro per-chè in Lui e con Lui si determina l’esperienza teologica, allora dire che Dio ci è più volte apparso morto o complice di delitti commessi in suo nome non è più un’affermazione retorica, ma un preciso atto di constatazione storica che viene sancito segnando passo dopo passo la vita delle genti del mondo.

Un altro aspetto della morte di Dio è. la conseguenza della espro-priazione che le religioni hanno perpetuato in danno del soggetto. Il soggetto umano ha relegato alla teologia il compito di occuparsi del sacro e delle anime. I credenti sono stati, in pratica, delegittimati dei propri atti critici e di opzione spirituale o filosofica, trasferendo alle religioni ogni responsabilità per quanto concerne sia il sè, in quanto individualità pensante, sia il proprio destino dopo la morte. Le religioni si sono, quindi, assunto il compito che doveva essere un dovere, ma che è diventato arbitrariamente un diritto, di gestire le anime secondo le norme stabilite al di là della volontà dei credenti. La storia delle religioni diventa, quindi, la storia di un potere da spirituale, di fatto, è subito diventato sociale ed economico, trasformandosi nell’arbitrio di distribuire il paradiso o l’inferno secondo un’etica che privilegia l’interesse dei poteri e non quello della libertà individuale. L’espropriazione dal soggetto di ogni diritto critico in materia eti-ca, è stato un altro segno della morte di Dio

7- Alcune conoscenze hanno poi definitivamente infranto le sicu-rezze che venivano riferite alla presenza di Dio nell’universo. La scoperta che la terra non è il centro dell’universo, quella che l’atomo non è indivisibile, la scoperta che la materia non esiste perchè tutto è energia, la conoscenza dei principi della relatività e dell’indeterminazione, la scoperta dell’inconscio e la costruzione dei cervelli artificiali, tutto ciò ha fatto crollare il mito dei dogma e ogni sicurezza intorno al grande tema della spiritualità. L’avvento della rivoluzione scientifica e, dunque, la caduta dell’u-

manesimo hanno poi concorso a bloccare la realtà di Dio intorno alla sua morte o alla sua inesistenza

A Dio è subentrato il mito della scienza, al metodo speculativo si è sostituito il metodo matematico sperimentale: non ciò che è possibile può essere vero, ma solo ciò che è riproducibile in laboratorio, questa è la linea della scienza!

Come possiamo parlare, quindi, del Dio della Genesi, quando nul-la parla di Lui nel concreto della storia successiva, ma ogni progresso lo respinge sempre più verso lidi di utopia e di inattendibilità?

«La sindrome della morte di Dio – ha scritto Harvey G. Cox, teolo-go battista molto ascoltato – è segno del crollo delle regole statiche e delle categorie fisse con cui gli uomini hanno compreso se stessi in passato. Essa apre il futuro in un modo nuovo e radicale. La profezia invita l’uomo ad avanzare verso questo futuro con una fiducia ispirata dalla tradizione ma trasformata dal presente Non si deve mai piangere per un Dio morto. Un Dio che può morire non merita lacrime».

Tuttavia, a questo punto, diventa d’obbligo la domanda alla quale siamo tenuti a rispondere. Ma è morto Dio oppure una erronea o falsa immagine che avevamo di Lui? E di quali valori avevamo circondato questo Dio perchè oggi se ne debba celebrare la morte? La sfida è aperta. Si portino una lampada o uno stetoscopio: andia-mo a visitare il dio dei nostri padri sul giaciglio di morte! Andiamo ad accertarci se non ci sia stato uno scambio di identità o una diagnosi sbagliata, andiamo a controllare quale Dio è colui che è morto.

8) La teologia ufficiale dei cattolici (Catechismo della Chiesa Cat-tolica) ha fatto propria, per quanto riguarda Dio, la Liturgia di San Giovanni Crisostomo (Anaforo) definendo Dio «ineffabile, incom-prensibile, invisibile, inafferrabile. invitando la comunità a «purificare il linguaggio da ciò che ha di limitato, di immaginoso, di imperfetto», al fine di non cadere «nelle nostre rappresentazioni umane».

Più avanti (paragrafo 43): «Ci si deve infatti ricordare che non si può rilevare una qualche somiglianza tra Creatore e creatura senza che si debba notare tra di loro una dissimiglianza ancora maggiore (Concilio Lateranense 1V), e che noi non possiamo cogliere di Dio ciò che Egli è, ma solamente ciò che Egli non è, e come gli altri esseri si pongono in rapporto con Lui» (San Tommaso d’Aquino„ Somma contra gentes, 1,30).

E’, questo, sicuramente un buon punto di partenza, pienamente condivisibile, bcnchè sul piano filosofico gli attributi di Dio siano tutti da dimostrare.

Tuttavia gli attributi che uccidono Dio non sono questi descritti prima, ma soprattutto altri specialmente della sfera sentimentale -emotiva. Per esempio: Dio è l’essere perfettissimo creatore di tutte le cose che, oltre ad essere infinito, eterno, increato, è anche misericordioso giusto, pietoso, paterno, sommo bene, somma carità, sommo amore, sommo perdono, caritatevole, confortevole, ecc.

Non c’è alcuno di questi attributi che regga alla prova logica. Tran-ne i primi tre attributi che rientrano nel discorso filosofico e sono comunque in discussione, gli altri non reggono alle prove più elementari. Anzi c’è la prova contraria. Nel mondo non c’è giustizia (tranne – a volte – quella dei Tribunali), non c’è altruismo, non c’è pietà, non c’è amore per gli altri, non c’è tolleranza, non c’è nulla di qualcosa che faccia pensare al Dio dei manuali. I poveri sono sempre più poveri e calpestati dai potenti, i violenti e gli arroganti, i razzisti e il denaro vincono quasi sempre; e dunque la media degli atti umani è uniformata alla disonestà sociale e personale, all’ipocrisia, al vincere sempre, costi quel che costi. Finanche nei gruppi ad orientamento spirituale dichiarato, l’egoismo e l’arrivismo prevalgono sull’altruismo, il danaro muove tutto, l’amore troppo poco o niente. Se Dio è in possesso di quegli attributi, a noi non ne appare neppure uno, nemmeno di riflesso. Dunque gli attributi di Dio non si espicano nel mondo e di conse-guenza nell’affermare che è morto il Dio di quegli attributi, noi non facciamo che uccidere un Dio che probabilmente non è mai esistito, almeno fatto in quel modo.

Quel Dio infatti, ce lo inventammo di sana pianta, bisognosi come eravamo di un padre che avesse, in senso antropomorfico, quelle qualità e quegli attributi paterni di cui abbiamo sempre sentito il bisogno come uomini soggetti alla paura della violenza, dell’ingiustizia e della morte. D’altra parte, non avendo altro a cui riferirsi, i nostri progenitori non potevano che pensare a quel tipo di padre, fatto prima della forma dei fulmini e poi disegnato come protettore di sciagure.

Abbiamo, d’altra parte, sempre desiderato – con l’evolversi e l’organizzarsi del sociale — un padre potente e generoso come Robin Hood che scendesse dal cielo e ponesse in ginocchio i potenti liberando le nostre debolezze dalle catene degli sfruttatori e dalla cecità degli ingiusti.

Tutti sognamo anche oggi un Dio che ripulisca le chiese dai traffi-ci e dai mercanti, i parlamentari dalla mafia, le strade dai rapinatori, le scuole dai professori ignoranti e pedanti, gli ospedali dai medici speculatori, i mari dai colibatteri, le infezioni dai virus; desideriamo tutti un Dio vendicatore e terribile, forte e inarrestabile e, nel contempo, dolce e giusto che faccia rialzare i deboli con un tocco lieve delle dita, che restituisca libertà agli oppressi e inetta in ginocchio gli egoisti e distribuisca giustizia economica e sociale agli uomini di questa terra e non faccia morire di fame centinaia di persone al giorno mentre i maiali ingrassano liberi finanche dai sensi di colpa.

Ma Dio non può essere così, altrimenti somiglierebbe a Charles Bronson giustiziere della notte e ragionerebbe. come un uomo qualsiasi somigliando ai pistoleri di John Ford e ai poliziotti del Bronx.

Ecco perchè questo Dio giustiziere’ ci appare morto!

È morto – lo dico con tanta nostalgia per i miei sogni di poeta e per le mie utopie – il Dio che non è mai esistito.

Ha scritto Karl Jaspers che fu un grande; esistenzialista, filosofo e psicopatologo: «Credere in Dio significa vivere sulla base di qualcosa che in nessun modo esiste nel mondo, tranne che nell’oscuro linguaggio dei fenomeni che noi indichiamo conte cifre o simboli della trascendenza. Il dio oggetto di fede è il Dio lontano, il Dio nascosto, il Dio indimostrabile».

Per quanti, come me, la morte di questo Dio, pensato in modo so-gnante ma antropomorfico, è stato un atto terribile di presa di coscienza come la perdita di un padre?

Scriveva Giuseppe Prezzolini: «io pregavo Dio, che non sapevo se esistesse, di esistere per me, non foss’altro che per un momento; un momento in cui mi apparisse e mi desse la pace: Rivelati, se esisti. Esisti, affinchè ti riveli! Non basta la mia preghiera a crearti? La divinità restava silenziosa».

Sartre, che è stato anche lui tra quelli che hanno magistralmente denunciato la morte dì Dio, deve averlo cercato a lungo, come tutti noi, prima di associarsi alla sua dichiarazione di morte.

«Ho raccontato – egli dice – or ora la storia di una vocazione man-cata: avevo bisogno di Dio, me lo diedero, lo ricevetti senza sapere che lo cercavo. Per non aver messo radice nel mio cuore, ha vegetato in me qualche tempo, poi è morto. Oggi, quando mi si parla di lui, dico col tono divertito senza rimpianto di un vecchio bellimbusto che incontra un’antica bella: cinquant’anni fa, se non ci fosse stato quel malinteso, se non ci fosse stato quell’equivoco, se non ci fosse stato quell’incidente che ci separò, ci sarebbe potuto essere qualcosa tra di noi!.

9- Appare sempre più evidente che parlare di Dio al di là degli at-tributi che a Lui vengono continuamente assegnati, è possibile solo con un discorso che ponga l’uomo al centro del dibattito. Senza la coscienza dell’uomo che si interroga, Dio cessa di essere un problema: è difficile finanche che possa esistere o non esistere, semplicemente egli svanisce all’orizzonte insieme a noi. Ogni altro discorso è puro esercizio retorico.

Diceva Heidegger: «L’essenza del sacro è pensabile soltanto par-tendo dalla verità dell’essere. Solo partendo dall’essenza del sacro è possibile pensare l’essenza della divinità. Solo nella luce dell’essenza della divinità è possibile pensare ad esprimere il significato della parola Dio».

Inoltre, il rapporto con Dio – sottolinea Heidenger – sarà possibile solo se, col duro lavoro personale, l’essere avrà chiarito se stesso». Ma tornare a se stesso e reclamare la domanda su Dio come do-manda dell’in-sè, vuol dire tornare all’uomo come soggetto: e come soggetto che si interroga, e chiede risposte per dare un senso alla propria vita, questo soggetto diventa un uomno come progetto. In questa luce bisognerà allora ripartire da zero e riconsiderare la propria tabula rasa non solo come dato culturale (abbiamo accumulato solo filosofie limitate ad a volte ingenue), ma come tensione verso il discoprimento di Dio nella propria anima dimcnticata.

Ormai, dopo migliaia di anni e miliardi di parole, il significato co-me valore può essere concepito solo in tre modi:

1) – anzitutto con la necessità che sussista – e sussista, si badi bene, nella realtà di una qualsiasi coscienza di un io individuale – il soggetto che intellegibilmeme e intelligentemente intenda una idea di Dio;

2) – che questo significato (visto rei linguaggio non lo si trova e, dunque, verosimilmente non c’è) sia presente in un metalinguaggio, cioè altrove;

3) – che, contemporaneamente, proprio in base ai due presupposti precedenti, siano rivisti, in modo distruttivamente analitico, tutti i principi sia di fede che di ragione che, ponendo premesse retoriche, antropomorfiche e obsoleto, impediscono di sfondare il muro del linguaggio che corrode i significati e mostra un Dio paludato di parole, che la storia del mondo e il buon senso finanche dimostrano falsi, pericolosi e distruttivi di Dio stesso.

***

Heidegger aveva ben visto questo problema. I1 grande filosofo te-desco ha infatti sempre proposto che, per riprendere a filosofare in modo genuino, è necessario recuperare l’altro linguaggio nascosto che vive nelle pliche esistenziali di ciascun essere.

D’altra parte è veramente palmare e chiaro che una conoscenza au-tentica deve significare esperienza della conoscenza , altrimenti siamo nella cultura che tende a definire e classificare. L’analisi della divinità appare dunque sempre più connessa all’analisi del soggetto che diventa, in quanto unico portatore di una coscienza che si esprime, anche come Sè e dunque come Io, il punto da cui si deve obbligatoriamente partire per qualsiasi «altro mondo» speculativo.

E Dio non è forse un essere che appartiene all’altro mondo? E se per qualsiasi percorrimento esistenziale che adopera altri linguaggi, siamo costretti ad entrare in vari stati modificati di coscienza per il solo comprendere (che esclude comunque la spiegazione) l’esistenza di un problema o l’intuizione di urta esistenza (divina), perché quando si parla del problema di Dio non dovremmo usare le stesse tecniche?

Dio non appartiene forse, Egli, ad un al di là non riuscendo a tro-varlo in un al di qua?.

Tutta la filosofia metafisica, la fenomenologia, le meditazioni e le tradizioni sacralizzate dei grandi mistici e sciamani, tutto ciò è indirizzato verso il superamento dei gesti umani per entrare in una coscienza altra: perchè per intuire l’esistenza di Dio, non si adoperano le stesse vie d’accesso e si pretende di razionalìzzare il problema al fine di presentare i risultati come se si trattasse di una compressa da inghiottire?

Ancora una volta torna il concetto di «viaggio» includendo in que-sto cammino (che diventa anche una curva di cambiamento) la stessa ricerca di Dio, ma ancora urla volta c’è il rischio che una filosofia adotti lo stesso principio della scienza allorquando pretende che la soggettività dell’intuire una verità venga dimostrata dall’oggettività a cui la soggettività, per propria natura, non può piegarsi.

Ma se la domanda su Dio deve essere spostata e formulata al di là del linguaggio, quale possibilità abbiamo che il luogo dove la domanda viene posta sia un luogo legittimato ad esistere’?

Ora però il discorso si fa più concreto. Perché ora ritorniamo al concetto di un’Anima o di una soggettività quale presenza nell’uomo di cui è difficile sbarazzarsi, almeno da Freud in poi. Dio può essere reinserito nel circuito delle domande a cui legittimamene è possibile rispondere, sia pure nell’area del metalinguaggio, proprio perchè quel mondo interiore e concreto -sconosciuto scientificamente dai greci fino allo stesso Cartesio – oggi dimostrativamente esiste e diventa finanche ontologicamente accettabile al di là di ogni metafisica.

L’esistenza dell’inconscio è la prova dell’esistenza di un mondo en-tro il quale è finanche tecnicamente possibile concepirne un linguaggio, lo stesso linguaggio dimenticato, come diceva Erich Fromm, che oggi ci è necessario per forzare il muro della parola e trapassarlo con l’ariete dell’intenzione. Ma con la presenza di una realtà interiore sulla quale oggi si fondano finanche discipline scientifiche che vanno dalla psicologia clinica alla psicosomatica o alla psichiatria e tutta una tradizione della meditazione vista finanche come «cura» (lo stesso Heidegger o Jung), si apre anche il discorso sulla effettiva realtà dell’intuizione, della creatività, della coscienza dell’inconscio, della libertà, della simbolizzazione, tanto che oggi è veramente difficile sostenere che l’uomo sia soltanto il peso del proprio corpo fisico o una pura forza fisio-psico-dinamica fine a se stessa.

Come ricondurre tutto ciò (di cui si è appena accennato) al grande discorso su Dio? Per poter rispondere è necessaria una ulteriore rifles-sione.

10 – Si impone una considerazione violenta, ma sincera: le parole e i luoghi che indicano la divinità non hanno più spessore, ogni concetto è obsoleto perchè è temporalizzato, generalizzato. Finanche fra i teologi e i fedeli cristiani regge la figura di Cristo, ma non quella di Dio. Dio si biascica, si ripete pedissequamente, ma non ha spessore, non è partecipato, nè affettivamente, nè emotivamente: ci si lascia coinvolgere dalla croce o dalla madre di Cristo sofferente, ma Dio resta silenzioso anche nella preghiera del credente.

Nell’interiorità dell’intuizione, cioè nel lavoro dell’Anima, l’oriz-zonte percettivo cambia totalmente. Il soggetto è immesso nel liquido sopore che lo separa dal corpo, è sospeso fuori dal tempo e dallo spazio, è nel suo in-sè, nel mare sterminato e senza confini di una spiritualità che tuttavia non si sperde e che si raggruma in un’altra coscienza, appunto la coscienza dell’Anima.

In questo stato di coscienza modificato si svolgono interazioni e connessioni assolutamente nuove per la mente quotidiana ed è in questa nuova realtà che si realizzano esperienze.

E’ questo il tempo, il luogo di Dio?

Nella condizione prima descritta si perdono i contorni geometrici, le persone sfumano e diventano significanze, gli oggetti svaniscono perchè mondani, i sentimenti si simbolizzano perchè non hanno più nulla di psichico o di sensuale; i dolori e le gioie si narcotizzano perchè appartenenze del corpo, il linguaggio – come puro segno semantico – si fa rarefatto, perchè la parola legata alla forma del sociale diventa puro semantema, puro significato: c’è. una trasformazione semantica dell’intero soggetto il quale diventa una «pura fuga per la tangente», una fuga che vuol dire riappropriazione di un Se sconosciuto.

In questa situazione che è addirittura esponenziale oltre che essere esistenziale, in cui predomina il senso allo più che il dato oggettivo dell’Essere (che tuttavia non perde il Se, anzi si rafforza come vero Sè perfettamente identificato) il soggetto riconosce come suo compito di movimentare la nuova parola per raggiungere dati di senso sconosciuti. Ho trovato, ad esempio, interessante l’uso di una locuzione come il da-dove. Se la domanda su Dio, formulata nei modo consueto, è senza risposta, nella condizione in cui la coscienza temporale e semiotica è sospesa, la domanda può essere trasformata in una espressione che potrebbe sostituire interamente il concetto che allude a Dio, per portarsi in una funzione concettuale, ma attiva , che sottrae Dio all’antro-pomorfismo della Persona definita.

L’espressione da-dove, come qualsiasi intuitivo può verificare, non è soltanto una metafora linguistica. Il da-dove, se pensato in maniera alogica, infatti indica una direzione che implica un moto senza rappresentare nè un luogo di provenienza nè di arrivo: da = da che parte, controbilanciato, a sua volta, da dove = verso che parte.

L’interrogarsi in questa nuova definizione esistenziale evita la di-scussione sulla natura e sugli attributi di Dio e mantiene un’oscillazione fra due direzioni non spaziali (tra il da e il dove) e quindi esprime una problematicità concettuale aperta e in divenire continuo. Da questo punto in poi il filosofo non parlerebbe più dell’origine (il da-dove è un concetto matematicamente infinito), del fondamento della provenienza, ma della problematicità radicale entro cui si immerge (fra i tanti) anche il problema di Dio che, insieme a quello dello Spirito (o dell’Anima) è il problema massimo della coscienza quando si interroga sulla propria origine e non intende delegare le risposte alle rivelazioni.

Il filosofo, dunque, è colui che interroga il problema dal quale ri-ceve risposta solo se entra nella situazione fenomenica epistemica all’interno della quale subisce la risposta stessa e, se può, la ritraduce nel linguaggio convenzionale dell’Essere. Il teologo e l’idealista, invece, sono coloro che credono al di là della domanda: le due posizioni sono quindi inconciliabili.

Dovendosi parlare di Dio il da-dove diventa, invece, una strada percorribile forse per entrambi. Infatti di Dio non sappiamo nulla se non che esiste il problema della sua esistenza.

Nella posizione del da-dove (che a sua volta utilizza l’epochè come sospensione del giudizio ogni volta che la visione si oscura o si sfuma), come insegna la stessa parapsicologia umanistica, si tratterà di sostituire Dio-Persona con Dio-Funzione indeterministica, come accade oggi in fisica.

La riflessione filosofica ci pèorta ad escludere il Dio-Persona-Spirito Assoluto non per negarne l’esistenza, ma perchè questa definizione di Dio è ingenua e indimostrabile e, soprattutto, non esiste neppure nelle grandi meditazioni ascetiche.

Dio è un’altra cosa e verso una nuova riconsiderazione si deve an-dare se vogliamo reinterrogarci. Ecco perchè un filosofo come Weischedel, ad esempio, giunge alla conclusione, radicale, che «nessuno dei tradizionali concetti di Dio può dunque entrare all’improvviso in gioco. Dio deve invece venir considerato solo ed esclusivamente a partire dall’unica cosa rimasta, la problematicità della realtà. Ma in questo caso Dio non può essere altro che il da-dove della problematicità radicale, dell’oscillare di luna la realtà tra essere e non-essere, tra senso e assenza di senso!»

Una incertezza che tuttavia è presa di coscienza di questa oscilla-zione che si risolve nell’affettività del proprio stato interiore e che non deve essere né minacciato, ne confuso dalla parola che parla di Lui.

Dio non è un «affare» dei teologi o dei filosofi, ma piuttosto una «funzione esistente e significante» che si incontra. Questo incontro può realizzarsi per vie tortuose quali quelle dell’inconscio in cui lavora lo straniamento della coscienza, o quello dell’illuminazione che tutto supera perche è l’Anima stessa a scoprirsi, ad aprire finestre improvvise sul Mistero.

Comunque accada, il senso di Dio può apparire solo nel nostro in-terno profondo. Al di là di questo livello possiamo partecipare alla messa in parentesi della divinità soltanto con le parole dei filosofi o con le affermazioni dei teologi.

Ma, mi si passi l’esperienza cinquantennale di meditazione e di ab-bandono, quando si entra nello stadio interiore della coscienza modificata, ci si accorge, si sente, si intuisce, si partecipa, che Dio o lo Spirito o, con altre parole, il problema di mc-Anima e di Dio si smarrisce e noi non siamo pìù termini dei problema.

Uno sforzo interiore potrà portarci a riconsiderare questa unione. Se le parole deí teologi e dei filosofi hanno diritto di cittadinanza, anche il mistico, l’oracolante, il sensitivo, cioè i poeti dell’anima, hanno il loro diritto di parola.

E una delle parole è questa:

Noi siamo di natura divina e perciò dobbiamo porre la domanda su Dio solo dopo aver risposto a quella riguardante noi stessi. Se non sappiamo risponderci non abbiamo neppure il diritto di rivolgerci a Lui. Il segreto è tutto qui. Solo interrogandoci e risolvendo prima di ogni altro tema della nostra identità interiore ac-quistiamo il diritto di guardare oltre e di traguardare la parola che definisce Dio;sostituendola con il vero legame che può unire un figlio al padre: un legame il mio maestro chiama «partecipazione alla divinità.

Questa partecipazione, in termini reali, vuoi dire vivere da «dei», nella propria interiorità, perché in questo luogo, inaccessibile ai sedentari della vita, accedono soltanto i viaggiatori dell’Anima che per volare devono assumere una diversa identità: quella che finanche gli uomini conoscono come identità degli dei!

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