La sede della certezza (o dell’immortalità dell’anima).
La sede di questa certezza è la mente umana. Non si tratta di un mero truismo, giacché parrebbe ovvio che qualsiasi credo o certezza non può non essere contenuto di pensiero, bensì di qualcosa di più, che è già immediatamente verificabile a livello di esIxerienza quotidiana e immediata. Al di là del fatto che si tratta di un fenomeno in qualche modo verificabile negli animali superiori, se non addirittura in qualsiasi sistema complesso o vivente — definibile corhe sistema in relazione tra “self” e “not-self”(ossia tra proprio e non proprio) (2) — ogni essere umano, in ogni singolo momento dell’eistenza, vive in
2, p.730. 2 Una luce insospettata sulla tematica del sé viene dalli ricerche dell’im-munologia contemporanea, a partire dal fondamentale Th4 Clonal Selection Theory of Acquired Immunology (Cambridge University Press, Nashville 1959) di F. Mac Parlane Burnet (dello stesso autore si v.da anche: Self e ‘Not-Self. Le basi cellulari dell’immunologia (Cellular Itnrininology, I, Cam-bridge University Press, London 1969), trad, it. di C. Franceschi e G. Prodi, Zanichelli, Bologna 1974). Assai utile per una prima conoscenza dell’estensio-ne dell’immunologia a discipline e contenuti conoscitivi è: M, Ammaniti (a cura di), La nascita del sé, Laterza, Roma-Bari 1994 (2).
una duplice dimensione: da un lato o mangia o dorme o sogna o pensa, dall’altro “vede” se stesso mangiare, dormire, sognare, pensare. I contenuti di questo “vedere” sono altro dai dati che vengono “visti”: vedere e percepire il movimento delle dita sulla tastiera di un computer è ovviamente altro da questo movimento. Le mie dita subiscono una serie di processi biologici che le modificano o, più semplicemente, si sporcano di polvere; le mie dita “viste” non subiscono alcuna modificazione, in una parola non si corrompono. Tutti i miei atti sono eventi che, nel momento stesso in cui vengono colti dalla coscienza, e proprio perché vengono colti, non ci sono più, mentre atti che non ci sono ancora, e che quindi appartengono al futuro, vengono prefigurati dalla coscienza. Per continuare l’esempio, io “colgo” le mie dita che corrono sulla tastiera dopo che sono corse, ma, nel contempo, con l’intenzione, le “colgo” in movimento prima ancora che il loro moto abbia luogo. Non ho il presente o, piuttosto, l’ho come presentificazione del passato, non ho il futuro, perché la mia volontà e la mia intenzione, in una parola la corrente della coscienza, l’hanno già anticipato, reso, in una parola, paradossalmente passato. Ammesso che i miei atti siano eventi non lo sono nel flusso della coscienza in cui in definitiva non c’è un prima, un adesso e un dopo, ma solo una presentificazione continua. Sottratta al tempo, la mia vita “vista” — e poco importa quale sia l’atto o vissuto che viene “visto” — è un flusso senza soluzione di continuità e dunque senza corruzione, in breve è immortale. Questa immortalità, tuttavia, non si darebbe se non fossi fatto, oltre che di corpo, di mente (che è la sede della “visione” del vissuto). Dunque la sede dell’immortalità è la mente o, se vogliamo esprimerci al modo dei filosofi antichi che identificavano la mente con l’anima ra-zionale, la mia anima è immortale. Il che, tuttavia, si badi bene, non significa che essa possa vivere dopo la mia morte; significa semplice-mente che la mia morte non la riguarda. Allo stesso modo, sostenere che vi sia un’altra vita oltre questa o, per contro, negarne la possibilità asserendo che, con la cessazione dell’attività cerebrale, la mente scompare è egualmente erroneo: nel primo caso si postula che possa esserci una dimensione corporea della mente, giacché la sopravvivenza di questa equivarrebbe alla sopravvivenza non già di un processo senza tempo, ma di una “cosa” definibile “mente”; nel secondo caso si presume che un processo, certamente reso possibile dall’attività cerebrale, si identifichi in pieno con questa attività e perciò ne venga, con la cessazione di quella, travolto. I pensieri dei defunti, si dice, non ci sono più. Questa, che il senso comune riguarda come una verità triviale, è, in realtà solo una mezza verità e forse un’intera bugia. Dire che questi pensieri non ci sono più è vero a una sola condizione: alla condizione che si riconosca che, quando furono modulati, non c’erano neppure allora. Se ci fossero stati nel senso materiale del termine, sarebbero stati non già pensieri, che per definizione sono privi di temporalità, ma cose, e solo le cose sono realmente corruttibili. I pensieri, in quanto senza tempo, sono immortali, ma la loro immortalità, per definizione ed essenza, ne cassa la reificazione. I soli pensieri dei defunti che ci sono ancora sono quelli che troviamo registrati nei libri di autori scomparsi. Ci sono, ma non nel senso che sopravvivono nella scrittura, ma solo nel senso che questa consente al lettore la loro ricostruzione. Anche in questo caso tuttavia è bene fare attenzione a due cose: a) i pensieri trascritti in qualsiasi opera del passato, dalla Repubblica di Platone a Madame Bovary di Flaubert, non sono dal punto di vista della fenomenologia del vissuto, quelli propri di Platone o di Flaubert, ma i cogitata del loro lettore (con il che, naturalmente, non si vuoi dire che non sia Platone l’autore di ciò che è detto della “caverna” nel VII della Repubblica o che non sia stato Flaubert a mettere in bocca a Raimondo le parole con cui l’uomo fa una dichiarazione d’amore a Emma Bovary; si vuol dire semplicemente che come “vissuto” visto dalla mente, il mito della caverna o gli amori di Madame Bovary sono “pensieri del lettore” non già di Platone e di Flaubert); b) questi pensieri comunque ricadono nelle considerazioni prima accennate intorno all’immortalità del pensiero o anima, un’immortalità che, in tanto si dà, in quanto equivale alla sottrazione al tempo. In effetti, molti degli equivoci che affollano la definizione dell’anima o pensiero come immortale scaturiscono dal modo in cui in Occidente, tanto una radicata convinzione cristiana — ancor più che filosofica — quanto il senso comune, pensa sia l’immortalità. Si pensa infatti che questa sia, per così dire, “longitudinale”, vale a dire un prolungamento illimitato della vita nel tempo. In realtà, giusta il suo proprio concetto, l’immortalità non è affatto una vita prolungata nel tempo, ma una vita senza tempo, un circolo perfetto in cui presente, passato e fu-turo non hanno senso. Al modo stesso del cerchio, il pensiero o anima è un ellisse il cui fuoco è zero, vale a dire una figura perfetta in cui il sito d’arrivo e quello di partenza di un punto in movimento coincidono.
All’idea dell’immortalità dell’anima in termini non già longitudinali, ma, per così dire, “circolari”, vanno associate altre due idee fondamentali: l’anima o pensiero non già come processo, ma come energia; la relazione di questa energia con struttura materiale, in una parola la relazione della mente con il corpo e, più propriamente, con il cervello. Quella mentale è, come è noto, un’energia che siamo in grado di misurare sotto la fattispecie di onde neuroniche. Sappiamo perfettamente che, senza i processi governati da precise componenti biochimiche, le cellule nervose o neuroni non sarebbero attivate e, pertanto, non sarebbe possibile alcuna attività mentale. Va però precisato che, pur a partire da un dato somatico apprezzabile a diversi livelli di osservazione, vale a dire dal cervello, l’attività mentale che viene indotta non solo è indipendente, quanto alla sua fenomenologia e al suo svolgimento, in altre parole quanto ai suoi contenuti, dalla sua causa, ma è altresì in grado di modularne in modo diverso l’attivazione. Ciò equivale a dire che, se è vero che non c’è attività mentale o mente senza cervello, non solo la prima non può essere riguardata semplicemente come una sorta di “secrezione” del secondo (per usare la celebre definizione di Moleschott), ma addirittura il sistema biochimico cerebrale può essere profondamente condizionato dalla mente. Un’esemplificazione concreta di questo condizionamento ci viene dalla teoria dello “sbarramento” o del “cancello”, introdotta da Meltzack e Wall per spiegare gli effetti analgesici, dal placebo all’anestesia totale, indotti dall’agopuntura (3). Secondo questa teoria il dolore viene annullato in quanto l’ago stimola la produzione di endorfine che impediscono la trasmissione al cervello delle informazioni (messaggi afferenti) sui danni intervenuti a livello locale. Il blocco o “sbarramento” della trasmissione delle afferenze è un processo squisitamente biochimico che dovrebbe essere in grado di verificarsi in qualsiasi soggetto, quale che sia l’educazione, il sesso, l’età, la cultura di appartenenza, il “credo” soggettivo nell’efficacia del trattamento. In realtà, tuttavia, le cose non stanno, così. In moltissimi pazienti, stando a precise rilevazioni statistiche (4), il blocco non si verifica. Con ogni evidenza intervengono fenomeni efferenti (messaggi tra-
3 cfr. R.Melzack, P.D. Wall, Pain Mechanisrns: a New Theory, “Scien-ce”, 1965, 150, n.3699. Per una disamina esauriente sulle interpretazioni fi-siologiche degli effetti dell’agopuntura si veda: Lu Gwei-Djen, J. Needham, Aghi celesti (Celestial Lancets. 1980), trad. it. di P. Lusso e G. Steffenino, Einaudi, Torino 1984, pp. 218-314. 4 cfr. Gwei-Djen, Needham, op.cit., pp. 252 e segg.
smessi dal cervello) che lasciano aperta la porta alla trasmissione delle afferenze, cioè alla percezione centralizzata del danno locale, dunque all’avvertenza del dolore. I messaggi efferenti, che impediscono la produzione di endorfine, sono vere e proprie “memorie”, vale a dire controinformazioni consolidate, veicolate da “pregiudizi” (nel senso letterale dell’espressione) educazionali e culturali. Questi “pregiudizi” sono in grado di impedire una fenomenologia biochimica, se non addirittura di modularla in modo corrispondente e opposto al senso auspicato dall’agopuntore, dal momento che, in linea puramente ipotetica, nessuno può lasciar cadere l’assunto che simili prodotti mentali stimolino la produzione di anti-endorfine.
Se è vero che il sistema biochimico del Sistema Nervoso Centrale può essere profondamente condizionato da quella che sarebbe un suo mero prodotto, vale a dire dall’attività mentale, allora la vecchia relazione nind-body (=mente-corpo, dunque mente-cervello) andrebbe totalmente ripensata: anziché sostenere che non c’è mente senza cervello, si dovrebbe avanzare l’ipotesi (che, beninteso, è ancora tutta da verificare) secondo cui il cervello c’è proprio perché c’è l’attività mentale o mente.
A rendere, se non validabile, almeno attendibile questa ipotesi ci può venire in soccorso l’anatomia, tanto quella normale, quanto quella patologica, in una parola proprio quella scienza medica che proclamava nel clima di trionfante positivismo del secolo scorso, una decisa di-pendenza della mente dal cervello.
Supponiamo di prelevare dalla scatola cranica di un cadavere il cervello. All’ispezione autoptica, nel cervello sono agevolmente osservabili i centri di attivazione dell’attività mentale, come sono altresì apprezzabili, ove siano occorsi, i guasti e i danni intervenuti nella massa cerebrale. Non è tuttavia possibile rintracciare in questa entità somatica né i pensieri, né le emozioni, né le fantasie del soggetto anatomizzato, né tanto meno — il che è, se possibile, ancora più significativo — i pensieri, le emozioni, le fantasie anche minimi che l’attività di ideazione e di comunicazione, comunque espressa, ha suscitato e magari continua a suscitare in innumerevoli altri soggetti. Specie se il morto è stato autore di libri, di film, di spettacoli o ha in qualche modo resa illimitatamente riproducibile la propria immagine e le proprie parole, l’attività mentale in cui si è dispiegato e continua a dispiegarsi il funzionamento del suo cervello è, di fatto, intangibile dalla morte cerebrale, come di fatto risulta irrangiungibile da questa l’incredibile quantità di contenuti mentali attivati, in un futuro difficilmente calcolabile, nella comunicazione con un potenziale lettore o spettatore. Va comunque precisato che se, sotto questo aspetto, la condizione di uno scrittore o di un individuo, attore, politico, persona a diverso titolo contrassegnata da una certa notorietà, pare privilegiata, si tratta di un privilegiamento che semplicemente mette a fuoco la condizione comune di qualsiasi essere umano. In una società di parlanti e di ideanti, qual è la comunità umana, l’attività mentale, comunque espressa, è sempre in qualche modo una comunicazione e un’interazione, il cui fluire so-pravvive alla morte dei suoi autori. Persino nell’eventualità della scomparsa della specie umana, persino nel caso, possibile anche se improbabile, che non restasse più traccia a garantire la nostra memoria, il pensiero ha talmente modificato la realtà esterna del pianeta — e non solo la sua struttura geologica ma anche quella biologica — che questa si presenta ormai come un set di potenziali informazioni virtualmente destinate ad essere decodificate, cioè recepite, da qualsiasi sistema vivente che abbia, per ciò stesso, strutture di ricezione (che tali sono gli elementi che fanno di un qualsiasi sistema in relazione o “complesso”, cioè un vivente). Per contro, il cervello è paragonabile alla “scatola nera” di un ae-reo. Al modo stesso in cui l’esame della “scatola nera” di un aereo consente di risalire alle cause e al tempo di occorrenza di un disastro, ma non permette tuttavia di riprodurre e di illustrare, altro che per simulazione, le sequenze del disastro stesso, così l’esame necroscopico del cervello non illustra l’intera fenomenologia dell’attività mentale che pure ha reso possibile. Il cervello conteneva le “istruzioni per l’uso” di un processo, ma non il processo stesso, le condizioni per il verificarsi di eventi neurocerebrali, ma non questi eventi stessi. Il cervello — parlo al passato per tenermi nella prospettiva classica dell’anatomia e nel contempo metterla in discussione — è stato il punto di partenza di un’energia, quella mentale, una scatola o gabbia contenente le strutture e le informazioni per attivarla, un meccanismo cibernetico che però non ci dice nulla né sui contenuti, né sulle sequenze in cui si è espressa l’attivazione.
Muovendoci in una posizione ribaltata rispetto alla prospettiva meramente anatomico-funzionale e facendo appello alla storia delle idee, possiamo scoprire qualcosa che getta una luce insospettata sulla tradizionale relazione mind-body stabilita prima dai progressi dell’anatomia e poi ribadita dallo sviluppo delle neuroscienze. Oggi sappiamo che il cervello è la matrice dell’attività mentale solo perché la mente, nel corso di un’indagine millenaria, ha a poco a poco scoperto e sempre meglio descritto la matrice della propria attività. Il pensiero, pensando, è, in altre parole, pervenuto a scoprire in dettaglio la funzione di una parte del corpo umano cui una tradizione biomedica illustre, come quella presentata dai grandi classici cinesi, da I Ching (Il libro dei mutamenti) allo Huang Ti Nei Ching, (5) rifiutava di ricondurre l’origine dell’energia mentale quasi che la memoria culturale più antica della specie conservasse il sospetto che il pensiero, che pure noi rico-nosciamo come strettamente connesso con il cervello, non avesse una sua sede definitiva. E del resto, anche ammesso che l’immaginario collettivo della specie si sbagliasse, anche ammesso che comunque il cervello è la matrice dell’attività mentale, come possiamo essere sicuri che la continua modulazione dell’attività mentale non possa produrre, sia pure in termini di evoluzione puntiforme (cioè in un periodo smi-suratamente lungo), una diversa strutturazione del soma che chiamia-mo cervello? In Occidente la storia delle ricerche anatomiche sul cervello va da Galeno a Broca allo sviluppo delle neuroscienze ed è scandita da una puntualizzazione sempre più dettagliata delle sue parti, che, alla luce di una prospettiva storiografica poco scaltrita, ha lasciato in ombra, come semplicemente errate o imprecise, alcune delle indagini più antiche. Così un testo estremamente suggestivo come il De usu partium di Galeno è stato travolto dal discredito che ha colto il suo autore per aver sostenuto un’errata teoria della circolazione del sangue, incentrata sull’esistenza, anatomicamente inapprezzabile, di forellini (foramína) sul setto intercardiaco (6). Cionondimeno, proprio dal De usu partium si possono trarre alcune indicazioni che possono in qualche modo confortare il punto sin qui esposto.
5 Huang ti Nei Ching (Il manuale di medicina corporea dell’Imperatore Giallo). Di questo classico esiste una traduzione inglese del 1939. Per un’informazione dettagliata della storia del testo v.: F. Voltaggio, L’arte della guarigione nelle culture umane, Boringhieri, Torino 1992, s.v. Cina. Per i I Ching v. i Ching (II libro dei Mutamenti) (I Ging Das Buch der Wandlungen (ed. R. Wilhelm, 1928, con prefazione di C.G. Jung), Trad. it. di B. Venezia-ni e A.G. Ferrara, Adelphi, Milano 1991 6 Sulla storia dei “foramina” di Galeno si vedano: A. Castiglioni, Storia della medicina, I, s. v. Galeno e II, s. v. Harvey, Mondadori, Milano, 1948 e Voltaggio, op.cit., s. v. Galeno es. v. Harvey. Per una buona informazione sulla “Prima Stoa” cfr. F. Adorno, Storia della filosofia antica, Feltrinelli, Milano 1961, 11 (più volte ristampata).
Secondo Galeno nel corpo dell’uomo vivente circola un soffio vitale, lo spiritus o pnéuma. Lo spiritus ricorda molto da vicino tanto il pnéuma della Prima Stoa (7), tanto il nei ch’i, il soffio endotrofico o “interno” dello Huang Ti Nei Ching (8), pur non essendo del tutto identificabile con quelli. Infatti, come il pnéuma individuale degli Stoici è solo parte del pnéuma dell’universo e il nei ch’i delle fonti cinesi è quella parte dello Yiian ch’i, il “soffio cosmico”, che è contenuta nell’ “oceano del soffio” (sita nella milza), così lo spiritus o pnéuma di Galeno trae dall’universo, di fatto dall’aria assimilata con la respirazione, la sua origine. Lo spiritus, tuttavia, finirebbe con il disperdersi se non cooperasse al suo ricostituirsi la nutrizione che, avendo luogo nello stomaco e negli intestini, consente al chilo pervenuto nel fegato di trasformarsi in sangue. Di qui la tripartizione dello spiritus o pnéuma in spiritus naturalis (pnéuma physikòn) che è sito nel fegato, spiritus vitalis (pnéuma zotikon), che si trova nel cuore, e infine spiritus animalis (pnéuma psychikòn) che ha la sua sede privilegiata nel cervello.
I tre spiriti danno origine a una complicata teoria della circolazione sanguigna, le cui sequenze sono così scandite:
a) il chilo — vale a dire l’insieme delle sostanze nutritizie assimilate nelle regioni coctive — passa, attraverso i rami della vena porta, nel fegato, ove si trasforma in sangue;
b) il sangue, attraverso la vena cava, passa nel ventricolo destro del cuore, da dove poi, attraverso la “vena arteriosa” (cioè l’arteria polmonare) viene inviato al polmone per nutrirlo;
e) il sangue, altresì, attraverso i foramina del setto intercardiaco, passa nel ventricolo sinistro del cuore;
d) di lì poi, lungo un complicato percorso, passa attraverso la rete mirabile — come da Galeno in poi si chiamò a lungo la ramificazione delle arterie carotidi — nel cervello, dove si trasforma in spiritus animalis (pnéuma psychikon) che, attraverso il reticolo costituito dai nervi, passa nei muscoli e negli organi sensoriali (9). La vita propriamen-
7 Per una buona informazione sulla “Prima Stoa”, cfr. F. Adorno, Storia della filosofia antica, Feltrinelli, Milano, 1961 II (più volte ristampata). 8) Sul nei ch’i si vedano Gwj-Djen, Needham, op. cit., e Voltaggio op. cit.
9 Per Galeno si vedano: Galeno, Opere scelte, a cura di I. Garafalo e M. Vegetti, “L’utilità delle parti” (De usu partium), UTET, Torino 1978, pp.319- 832 (v. anche l’eccellente nota introduttiva al testo, pp. 291-318); Galeno, Procedimenti anatomici (Anatomikai encheiréseis), con testo greco a fronte,
te detta, che Galeno concepisce in termini di animazione, è perciò data dallo spiritus anirnalis, in una parola dall’anima e si presenta come un processo circolare, in cui si individuano due percorsi, uno dall’alto in basso, dal cervello al cuore al fegato, l’altro, contrassegnato in prima istanza dall’emopoiesi del fegato, dal basso in alto, ossia dal fegato al cuore al cervello.
A questo punto, mi parrebbe evidente come in Galeno: a) l’intero processo vitale sia guidato da un’energia, quella dello spiritus animalis che, proprio per avere il sito di formazione nel cervello, può essere ritenuta identica a quella che si è sin qui chiamata energia mentale; b) tutte le parti del corpo sono finalizzate, proprio in virtù della forma peculiare che assume la circolazione sanguigna, a rendere possibile la formazione e il mantenimento dell’energia mentale. Ora, se si riflette sul punto b), mi pare sia possibile trarre le seguenti conclusioni:
1. Se tutte le sue parti sono subordinate allo svolgimento di una funzione primaria, consentire cioè la formazione dello spiritus animalis, allora il corpo va riguardato come un assemblaggio di componenti voluto per un certo fine;
2. Il corpo umano, esemplato di volta in volta in questo o quello in-dividuo, va inteso come realizzazione concreta di un sistema, il “vivente”, le cui istruzioni per l’uso (o, se si preferisce, i cui principi) sono contenute nello spiritus animalis, cioè nell’energia mentale:
3. Il sistema, riguardato dal punto di vista delle sue istruzioni per l’uso o principi, è reale, ma poiché non può risolversi in questo o quel corpo, che ne costituisce la mera esemplificazione, è incorporeo, dunque incorruttibile e immortale;
4. L’immortalità del sistema non è certamente quella del singolo
ed. a cura di I. Garofalo, Rizzoli, Milano 1991, 3 voll. (l’edizione di Garofalo è un’egregia ricostruzione, anche sulla scorta dei manoscritti arabi, del testo originale in greco che la tradizione storiografica conosce nella versione lati-na con il titolo di Administrationes anatomicae); Voltaggio, op. cit, s. v, Ga-leno (è qui che affacciò per la prima volta l’ipotesi del corpo umano come as-semblaggio delle sue parti voluto dal sistema, di fatto dallo spiritus anaima-iis), Per quanto concerne la teoria della circolazione dì Galeno si vedano: Ca-stiglioni, op. cit., s. v. Galeno e G. Micheli, “Le ricerche medico-biologiche: Galeno”, in L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Garzan-ti, Milano 1970, I, pp. 370-387 (in particolare pp. 385-387).
individuo, il quale può cionondimeno essere indotto a pensare alla propria immortalità, in una parola all’immortalità della sua mente o anima, come a un riflesso dell’immortalità da cui è nato. Può essere utile rammentare come, nella storia della teologia cristiana, si sia compiuto il tentativo di mantenere salda l’idea dell’immortalità dell’anima intesa quale sistema e, nel contempo, “salvare” l’immortalità della sua transeunte esemplificazione, cioè dell’anima o mente del singolo individuo. Fu per questa ragione che Tommaso d’Aquino introdusse il principium individuationis, il principio cioè che, integrando nell’ortodossia cattolica la prospettiva galenica, consentiva di ipotizzare (per poi pervenire a volgere l’ipotesi in dogma) che Dio, con un atto di creazione, determinasse l’immortalità della singola esemplificazione del sistema, cioè dell’anima di questo o quell’individuo. In realtà è appena il caso di sottolineare come, al di là della genialità che va riconosciuta all’ipotesi di Tommaso — detto per inciso, il principium individuationis costituisce probabilmente il nucleo euristico dell’irripetibile peculiarità dell’individuo sostenuta dalla genetica contemporanea —non è però di questo che qui si tratta. La convinzione che ciascun essere umano nutre, entro di sé, dell’immortalità della propria anima o mente, è invincibile, ma questa convinzione non ha bisogno di un suffragio teologico, cioè della reale esistenza di un Dio creatore. Semmai, quella di un Dio creatore è il contenuto di un credo che scaturisce da questa convinzione stessa, una certezza il cui fondamento sta nel-l’avvertenza, in sé corretta, da parte dell’uomo d’essere un corpo regolato, se non addirittura posto in essere, da alcunché di incorporeo. In breve, l’immortalità della anima non è l’esito di un atto di amore del Creatore, ma di una relazione, nel contempo estremamente concreta e non sempre però agevolmente decifrabile, tra le istruzioni di uso di un sistema, insieme reale e incorporeo, e la sua effettiva realizzazione in un particolare individuo. Da questa relazione, a mio parere, scaturiscono quelle che io chiamo “proiezioni mentali”, tra le quali incontriamo i contenuti tipici della teologia, quali l’esistenza di Dio e l’atto della Creazione. Prima di passare a questo argomento, vorrei però prima richiamare l’attenzione su due grandi suggestioni teoriche che ci vengono dalla storia dell’idealismo occidentale, in particolare da Platone e da Kant.