LA SOLITUDINE. DIO E’ L’INFINITO. POTENZIALITA’ INFINITA DELLO SPIRITO. (14.2.1992)

LA SOLITUDINE. DIO E’ L’INFINITO. POTENZIALITA’ INFINITA DELLO SPIRITO. (14.2.1992)

D – Vorremmo che tu riprendessi il tema della solitudine.

A – Per quanto riguarda il tema della solitudine devo subito dire che si tratta di un fenomeno psicologico, di una situazione psico-logica esclusivamente umana. Infatti lo Spirito non ha mai il senso della solitudine; una crisi di solitudine, e dunque la solitudine è una situazione che riguarda esclusivamente l’essere incarnato.

Non solo lo Spirito è sempre solo, nel senso della posizione rispetto alla realtà universale, ma egli reclama e richiede la soli-tudine, benché questa situazione non sia propria e non vada defi-nita così.

Lo Spirito, d’altra parte, è un infinito, è una personalità creata potenzialmente eterna ed infinita, e dunque egli possiede una ric-chezza potenziale così infinita che la posizione esistenziale di questo Spirito è sempre ricca e piena.

Naturalmente nell’Universo gli Spiriti non sòno entità singole e la molteplicità degli esseri spirituali farebbe pensare ad una sorta di associazionismo spirituale. In realtà, benché gli esseri spirituali si incontrino continuamente o vivano continuamente in gruppi con altri esseri spirituali, la posizione per così dire esistenziale dello Spirito (ed anche qui le parole non mi sostengono) rendono lo Spirito un essere unico, e dunque solo, eternamente solo.

La solitudine quale l’intendete voi è una posizione, un atteggia-mento dell’interiorità psicologica; volete stare continuamente con gli altri, avete bisogno della compagnia altrui, tant’è che fondate l’esistenza sui gruppi familiari, e dunque è evidente che l’essere di specie umana ha bisogno del raggruppamento.

Che poi all’interno di questo raggruppamento gli esseri continui-no ugualmente ad essere soli, questa è una connotazione tipica di tutti i soggetti che godono del carattere dell’individualità.

Essendo ciascuno un essere unico, siete tali anche nella vostra situazione interna. Benché si stabiliscano profondi e grandi affetti, nessuno può passare nell’interno di un altro. Lo scambio avviene, quando avviene, nella superficie della psiche.

Una prova evidente è questa: voi potete scambiarvi, darvi amore, amicizia, dare di voi stessi praticamente tutto o quasi tutto ciò che vi è possibile dare, eppure non riuscirete mai a dare il vostro profondo senso della vostra natura interna perché gran parte di essa è sconosciuta finanche a voi stessi, poiché di voi conoscete soltanto la parte che appare nella vostra vita. Da questa parte poi dovete già cancellare quello che siete stati prima di nascere, una parte della memoria che non vi portate dietro nel corso della vita, soprattutto il ricordo di vostre esperienze incarnative precedenti, sicché la vostra natura, che è costituita essenzialmente da ciò che siete in profondità e non ciò che siete in apparenza, è sconosciuta a voi stessi.

Potete, è vero, avere pulsioni, manifestazioni che vi fanno rico-noscere come appartenenti ad una certa tipologia umana o spirituale, ma il vissuto, il racconto di ciò che siete profondamente dentro vi è eluso, e dunque non potete ovviamente conferirlo e trasmetterlo ad altri.

Quando parlate di solitudine di che cosa intendete esattamente parlare ? La mancanza di uno scambio a livello di comunicazione, a livello del contatto umano, a livello quindi del coinvolgimento a due, a quattro, a sei persone, a famiglie o gruppi sociali, a gruppi enormemente grandi, a gruppi etnici ?

Se invece parlate di solitudine circa l’appartenenza esclusiva a voi stessi, anche questo aspetto deve tener conto fondamentalmen-te della natura di cui siete costituiti. Ed allora se voi ricuperate il senso e la pienezza di voi stessi, riconoscendovi per quel che siete in profondità o anche, senza andar troppo lontano, ricuperate il senso di ciò che appartiene alla sfera della vostra intellettualità, della vostra intelligenza, dei vostri bisogni, dei vostri sentimenti, se con tutto ciò o con la ricchezza o la potenzialità di tutto questo voi vi mostrate così alla vostra coscienza, al vostro momento sto-rico, la solitudine diventa solo una parola di riferimento per inten-dere che banalmente non condividete parte della vita con altri.

Il problema non diventa, dunque, di una solitudine esistenziale, ma di una solitudine un po’ di comodo, la solitudine di non avere compagnia, di non aver persone nel desco familiare, di non aver potuto avere figli o di non avere più genitori o amici, ma siamo negli accadimenti fra i più banali rispetto a ciò che io intendo per concetto di solitudine, e cioè l’ appartenenza dello Spirito e della natura profonda dell’uomo esclusivamente a se stesso.

Allora sotto questo profilo io sono un essere unico e solo, perché io posso entrare in voi solo fino ad un certo punto e analogamente voi potete entrare in me fino ad un certo punto; ma già per entrare ciascuno di voi o noi dentro l’altro bisogna fare una serie di riconoscimenti che non sempre è facile e necessario fare perché allo Spirito manca il desiderio di appartenenza all’altro; lo Spirito sta bene così come sta: lo Spirito è un essere unico, solo e solitario.

Quando incontra l’Universo, non incontra l’Universo delle persone, incontra i piani conoscitivi dell’Universo, le sue funzioni, l’intero mondo fenomenico dell’Universo, ma non incontra i soggetti dell’Universo a livello dello scambio e soprattutto al livello del soddisfacimento di una natura interiore. Questo non vuol dire affatto che il concetto di solitudine che vi sto esponendo sia un concetto doloroso, vi sto semplicemente dicendo che all’Universo dello Spirito manca completamente il riferimento ad una solitudine concettuale così come l’intendete voi.

Lo Spirito, benché sia un essere unico e solo, non ha la necessità assoluta di scambiare con l’altro. Non intendo dire neppure che lo Spirito non scambi con altri; egli scambia con l’Universo, scambia con altri Spiriti, si accosta ad altri esseri spirituali, può essere attratto per una serie di altri fattori da altri esseri spirituali, ma tutto ciò non assolve ad una profonda e naturale esigenza dello Spirito, assolve soltanto all’altro principio generale che accompa-gna l’Universo, e cioè che comunque, nell’infinito, la vostra soli-tudine si accompagna alle solitudini degli altri ed a questo punto finite con lo stare necessariamente insieme agli altri pur potendo non starci affatto, per l’eternità e nell’infinito.

La natura dello Spirito che evochiamo risponde al principio fondamentale dell’Universo, che ciascun Spirito è creato da Dio in maniera unica e completa, in maniera eterna ed indivisibile, men-tre il concetto del dare in questo senso, cioè del darsi, presuppor-rebbe una natura dello Spirito che si sdoppia, si triplica o si moltiplica per conferirsi all’altro.

Il principio è che ognuno di noi è irripetibilmente unico nell’eternità.

Questo principio che sembra possedere una durezza ontologica, una durezza esistenziale, in realtà – se ci pensate bene – ci salva completamente ed infinitamente dalla morte. E’ infatti in base a questo principio che noi non moriremo mai.

Se dessimo qualcosa di noi, se il dare dovesse significare cedere all’altro, se dovesse significare espugnare la nostra fortezza interiore, la natura divina di cui siamo costituiti, se nel dare noi dovessimo cedere parte di noi all’altro o all’Universo, noi metteremmo in serio pericolo il carattere eterno della nostra natura divina. La nostra e la vostra natura divina ci assicura il principio dell’eternità, cioè il principio della non morte, perché il nucleo che costituisce la nostra struttura è un nucleo incedibile, è lo stesso principio di cui è costituita la natura della divinità.

Dio ha creato, per usare il verbo creare, l’intero Universo, l’intero Infinito; Egli dunque ha realizzato un Universo che ha i caratteri infiniti ed eterni. Pur cedendo i propri caratteri alla creazione, Dio ha forse un potere ed una compattezza strutturale minori di quando l’Universo non era stato creato ? Certamente no. Dio resta ciò che è indipendentemente da ciò che crea; Egli resta cioè l’eternità quantitativamente e – questo è importante – qualitativamente. La cessione nell’atto creativo è una proiezione; Egli non cede nulla di sé, e così è lo Spirito.

Noi non cediamo nulla di noi stessi, pur conferendoci funzional-mente agli altri, ma non per necessità interiore – questo è il punto – ma perché nell’Universo noi viviamo insieme agli altri esseri comunque intelligenti o alle forze non intelligenti e dunque non possiamo fare a meno di essere nella creazione e di vivere con gli altri esseri appartenenti alla creazione, ma restiamo comunque singoli elementi che “funzionalmente” possono conferire o cedere o dare o offrire funzioni, ma mai la propria natura.

Il problema è che lo Spirito non vive in base ai sentimenti e alle ragioni dell’uomo; posta tutta questa premessa il ragionamento è diverso per quanto riguarda la specie umana. Essa ha bisogno di vivere la ricchezza dell’incontro; sente meno, tuttavia, questa ne-cessità quando comincia ad acquisire una ricchezza interiore. Più questa ricchezza interiore diventa presenza tangibile nella coscienza, meno si avverte la necessità di incontrare la natura e l’Universo, se non sul piano conoscitivo.

La domanda però non verteva su questo punto, ma sul piano della necessità sentimentale, sociale, e quindi intendeva solitudine nel senso proprio della vita; allora questo è un aspetto che io posso – anzi devo – condividere, ma è opportuno sapere che tutto ciò non realizza una necessità dello Spirito, ma una necessità del corpo, della mente, per cui gli uomini devono veramente vivere in gruppo soddisfacendo in tal modo una natura che è prettamente animale, cioè una natura vivente che cerca continuamente l’aggregazione con le altre forze della natura, ed in questo caso con gli altri uomini, per poter soddisfare le esigenze di natura psicologica che sembrano escludere quasi del tutto l’eventualità che l’uomo possa essere felice da solo e che non possa esserlo senza la stima ed il consenso degli altri.

D – Per l’uomo è importante il rapporto con gli altri perché se non si crea questo rapporto con i vari sentimenti l’uomo non riesce neppure a fare le esperienze.

A – Dal momento che siete incarnati, una gran parte delle espe-rienze deve essere fatta nello scambio con gli altri. Uno dei motivi o principi della materialità è indubbiamente quello di vivere il corpo insieme o in funzione di altri corpi, quindi c’è il momento dell’aggregazione, della vicinanza, del contatto, salvo poi a proce-dere all’elaborazione dell’esperienza in maniera solitaria perché quando rielaborate l’esperienza voi lo fate in maniera solitaria, non più collettiva.

Voi potete fare esperienze grandi o piccole insieme agli altri, attraverso il contatto, l’amore, il lavoro, ecc.; tuttavia l’elabora-zione è personale e soggettiva, cioè voi, indipendentemente dal modello che userete non potete evitare che l’elaborazione sia per-sonale. Infatti nessuno può intervenire in questo processo perso-nale e l’elaborazione è un’esperienza che ciascuno fa da solo senza l’aiuto, la collaborazione o il diniego degli altri.

In questo senso sarete sempre soli; anche con la persona più amata voi potete scambiare moltissime cose, quasi tutto – apparen-temente – salvo le parti di cui ho detto prima; tuttavia, sia l’uno che l’altro nel momento dell’elaborazione vi staccate un’altra volta. Potete trovarvi addirittura avvinghiati l’uno con l’altro, toccarvi con mano, sentire i vostri corpi l’uno con l’altro, ma le vostre menti continueranno a ragionare autonomamente ed utilizzare finanche le sensazioni in maniera autonoma, e questo dagli atti più intimi a quelli più superficiali, da quelli più profondi a quelli più intellettualizzati, a quelli più organici.

Voi non potete evitarlo pur vivendo insieme agli altri, in posizione di estrema vicinanza corporea e psichica ed anche spirituale, che le elaborazioni restino a livello singolare e che ciascuno le elabori in base a tutto il patrimonio che ha, sicché rispetto alla stessa esperienza fatta in comune le elaborazioni potranno essere estremamente diversificate.

Il discorso è che nessuno entra in un altro, al punto tale che l’elaborazione, il momento critico, il momento della scelta, del trapasso da un’esperienza materiale a quella dello Spirito resta un atto singolare in cui un altro non può assolutamente entrare, e questa secondo me è la dimostrazione più evidente di quello che dicevo all’inizio, della singolarità del vostro stato di coscienza, della vostra interiorità.

Allora ecco che quando voi parlate di solitudine state parlando di un’altra solitudine, quella dello scambio, della mancanza di un rapporto con l’altro, cioè della mancanza di quegli atti, gesti, consuetudini, che trasformano apparentemente la persona in un gruppo, anzi che la portano in un gruppo, sia duale che un vero e proprio gruppo; manca cioè la funzione del coordinamento del gruppo. Questo però è un discorso che tiene ugualmente in vita quello più fondamentale che nello stesso gruppo o nello stesso rapporto duale le vostre funzioni soggettive restano uniche e non scambievoli, e per quanti sforzi possiate fare, ciascuno resta nella propria testa e non entra in quella degli altri.

Molte filosofie, o psicologie, o molti maestri tendono a coltivare l’elaborazione singolare, unica di ciascuno di voi, perché si è sempre saputo che gli uomini, pur avendo bisogno del gruppo, del clan, della tribù, poi diventati la famiglia, la patria, il popolo, un’etnia, pur avendo bisogno di tutto questo per soddisfare una serie di bisogni di tendenza sociale che ciascun essere umano possiede come singolo o come gruppo di appartenenza, pur tuttavia in questi ambiti si continua a restare soli. Ecco perché è importante coltivare questo tipo di solitudine.

Non che bisogna avere la vocazione alla solitudine, ma abituarsi, esercitarsi a stare soli con se stessi, perché colui che riesce a stare solo con se stesso in realtà è in grandissima compagnia, perché il se stesso interno è ricco di percezioni e risonanze che ormai avete perso perché siete presi dal gioco e dal gusto sociale, e quindi avete perduto il carattere distintivo della vostra unità sostanziale, avete perduto il vostro carattere spirituale, e quindi non riuscendo a star soli vi annoiate, non sapete che cosa fare.

Non propongo le vite solitarie, certo non siete degli eremiti e non potete fare questo tipo di vita, né ve lo raccomanderei in quanto, almenché non ci siate costretti, bisogna uscire da questa solitudine diciamo collettiva, generalizzata, per passare però ad una sorta di socialità ricca.

Tuttavia l’essere umano può anche tentare di raccorciarsi in se stesso e trovare una serie di elementi che spesso nel gruppo si perdono e che da soli si possono riconquistare: quali appunto l’eb-brezza, la ricchezza, i valori della propria interiorità, il senso di appartenenza a se stessi: questo significa motivarsi, esercitarsi, trattarsi bene, interpretare il mondo, vivere anche separati dal mondo, ma nel mondo e col mondo, cioè quel mondo che è dentro.

Certo può darsi che per taluni tutto questo sia difficile, ma io non credo che gli esseri umani abbiano queste solitudini così estreme, almenché non se la scelgano o non se la siano scelta per difetti caratteriali, per difficoltà caratteriali, perché non sanno stare con gli altri, non sanno vivere col mondo. Ci sono molte persone che analizzandosi attentamente potranno poi riconoscere che gli esseri umani sono caratterialmente difficili, e dunque per poter vivere in un gruppo, in una comunità, in una collettività, talvolta bisogna modificare se stessi, nell’aspetto esteriore, nella parte psichica.

Sappiate che non sono mai gli Spiriti ad essere in conflitto, almenché – e solo in questo caso – non vi siano grosse differenze di evoluzione che allora portano gli Spiriti non ad entrare in con-flitto, ma immediatamente a separarsi.

Io Spirito, se dovessi incontrare un altro essere spirituale confor-mato spiritualmente ed evolutivamente in maniera molto diversa, semplicemente non ne sarei attratto, ma non entrerei in conflitto perché il conflitto non esiste sul piano spirituale: lo Spirito sa che ciascuno segue la propria evoluzione e chi è in una diversa situa-zione evolutiva semplicemente non si accorda con le altre, punto e basta.

Non avendo le sovrastrutture, i dinamismi psichici, i caratteri che vi ritrovate per mezzo del cervello, della società, della legge di ereditarietà, della famiglia, della diseducazione, per motivi eco-nomici, per motivi anche più gretti, non avendo tutto questo, non c’è conflitto fra gli esseri spirituali.

Dal momento in cui nasciamo in poi comincia il conflitto dei corpi, e allora finite per attirarvi o respingervi in base ad una serie di necessità o di rifiuti verso gli altri.

D – Ma anche lo Spirito è un essere relativamente solo, perché dopo l’ emanazione la prima cosa che capisce è di non essere solo, che c’ è un altro da sé.

A – Questo fa parte della conoscenza.

D – Mi sembra un po’ improprio dire che lo Spirito non ha bisogno di niente; diciamo che ha degli esterni.

A – Ha bisogno di svilupparsi, di crescere e quindi di evolversi in un Universo che è dato

D -… che è composto anche di altri esseri, Dio per esempio, e dunque non è solo.

A – Non lo è infatti. Quello che dicevo è che strutturalmente lo Spirito non ne ha bisogno, perché l’accrescimento avviene nel suo interno. Tuttavia egli si muove insieme agli altri o incontrando gli altri, e così facendo incontra l’Universo, non può fare a meno di incontrarlo.

D – Ma come possiamo dire che è potenzialmente perfetto visto che ha bisogno di qualcosa che è al di fuori della sua struttura ?

A – Ciò che è al di fuori della sua struttura serve ugualmente da piano di stimolo conoscitivo, ma non serve per la conoscenza. La conoscenza è sempre dentro di lui, non è fuori di lui, poiché lo Spirito è potenzialmente infinito come vi ho sempre detto. Dunque anche la conoscenza è potenzialmente nello Spirito.

Esser potenzialmente nello Spirito non significa che tutta la conoscenza è attualmente presente nella coscienza dello Spirito, ma anche per apparire nella coscienza dello Spirito c’è bisogno di uno svolgimento, e questo svolgimento si ha nell’incontro con l’infinito che è fuori di lui.

Il bisogno che lo Spirito ha di questa realtà è funzionale al principio di evoluzione, ma non necessario nel senso proprio della necessità di questo Spirito. La domanda che potresti fare ed alla quale io non saprei dare risposta – perché non esiste l’alternativa – è questa : se Dio avesse creato esclusivamente uno Spirito sol-tanto, o se avesse creato soltanto uno Spirito e non avesse creato l’Universo, quale sarebbe stata la possibilità di questo Spirito ?

A questa domanda io non posso dare risposta perché ogni rispo-sta presuppone un’esperienza all’interno della risposta e questo è un caso inesistente, anzi è uno pseudocaso, e tutte le ipotesi non hanno che il senso dell’ipotesi; in realtà è un caso che non si è mai presentato, perché lo Spirito non è mai stato creato solo ed insie-me allo Spirito è sempre stata creata la realtà che gli è intorno.

A questo punto noi dobbiamo riconoscere che la realtà è il rife-rimento più sicuro dello Spirito, e lo Spirito deve avere questo riferimento poiché è vero che è potenzialmente infinito, ma questo potenziale infinito non lo ha ancora riconosciuto e dunque il pa-rametro di sicurezza è la realtà esterna.

Ad esempio, perché talvolta vi dico: “siate sicuri, voi non morirete mai, il vostro Spirito sopravvive !”. Lo dico in base a molte variabili, una delle quali – a parte la conoscenza – è questa : vivendo da moltissimi anni come Spirito non ho mai visto – e questo per usare il verbo improprio “vedere” – morire uno Spirito, non l’ho mai visto in regressione, ma ho sempre visto Spiriti in accrescimento evolutivo.

Io non vedo la morte nell’Universo e perciò devo desumere che la morte non esiste. Certamente ho visto esseri spirituali che dovrei considerare appena emanati. Questi esseri spirituali non pro-vengono da uno stato precedente di morte, come si potrebbe sup-porre (prima non esistevano, dunque è come se fossero morti) perché in ciascuno Spirito riconosciamo il marchio divino, e cioè in ogni Spirito riconosciamo una forza potenziale. Questo potenziale è eterno, e badate che quando dico eterno non intendo solo verso il futuro (cioè non morirà mai), ma eterno anche verso il passato, e questa è una cosa che probabilmente non capirete mai da uomini, perché vi sembra impossibile credere che uno Spirito che comunque prima non esisteva come Spirito sia stato eterno fino a quel momento, dal momento che prima non esisteva come numero; ecco che qui subentra sempre il concetto del potenziale.

E’ vero che io vedo, sento, percepisco (usate i verbi che volete) l’esistenza di questo Spirito che prima non c’era come unità, ma c’era come essere potenziale. Egli era sempre esistito, ero io che non lo percepivo, era lui che non si autopercepiva, ma esisteva in Dio, era un potenziale perché ciò che non esiste in eterno non esiste affatto, e questo è il principio che ci salva completamente dalla morte.

Nel momento stesso in cui noi riconosciamo di essere e quindi di esistere e di essere eterni, in quel momento stesso noi siamo a noi stessi immortali. Non è un problema di un dòno di Dio che ci ha voluto conferire l’eternità, è un problema di appartenenza alla natura divina.

Questo concetto è misterioso per l’essere umano e per certe frazioni lo è anche per lo Spirito, perché non è che noi conosciamo esattamente tutta la modalità con cui dalla natura divina si esprime il passaggio alla natura individuale quali noi siamo.

Per poter capire esattamente tutto (a parte il fatto che non riu-scirei a raccontarlo a voi) dovremmo rientrare in Dio e ripercor-rere il nostro potenziale, ma ripercorrerlo ci è vietato perché se dovessimo ritornare nei meandri della natura divina noi perderem-mo la nostra unità ed andremmo incontro alla nostra morte indi-viduale; allora Dio creandoci potenzialmente ci consente un’altra operazione ed è quella che noi facciamo: noi non possiamo rien-trare in Dio, e quindi perdere noi stessi, ma possiamo rientrare in noi stessi ed assumere così tutte le informazioni, conoscenze, piani di sviluppo e programma che appartengono alla nostra unità, ed è quello che poi dicono i saggi, di conoscere se stessi.

Questo lo possiamo fare perché in questa operazione noi non ci perdiamo; ma come lo facciamo ? Lo facciamo continuamente attraversando l’Universo, il mondo, vivendo sia nei corpi – quando ciò è possibile – sia fuori dei corpi, cioè vivendo la nostra evolu-zione.

Ogni volta che noi viviamo la nostra evoluzione stiamo cam-minando in noi stessi, cioè stiamo percorrendo la nostra natu-ra interiore. Ci sembra di andare avanti perché ampliamo la no-stra conoscenza; in realtà stiamo andando indietro perché stiamo ricuperando il nostro potenziale. In questo andare indietro noi ci ricongiungiamo con la natura di Dio perché essa è stata espressa nel nostro profondo essere, e dunque apparentemente avanziamo, ma sostanzialmente arretriamo, sebbene questo arretramento, poi-ché percorre un potenziale, equivale poi ad un avanzamento, dal momento che nell’infinito non esiste l’avanti e il dietro, il positivo e il negativo, l’alto e il basso.

Se è vero che ci è preclusa l’operazione di entrare in Dio, noi ci entriamo di riflesso, specularmente, perché Dio – e questo è l’atto grandioso della creazione – ha conferito a ciascuno di noi la potenzialità divina, ma perché questa sia ripercorsa è necessaria un’operazione di incontro con l’intera creazione.

Ecco dunque l’incontro con la realtà, l’incontro con l’Universo non individuale, l’incontro con tutto ciò che è esistente, al di là delle banalizzazioni con cui voi potete fare il discorso dell’evoluzione, ed allora attraverso la lettura di questa funzione così potente, com’è possibile che lo Spirito ahbia una vera necessità di in-contrare la realtà esterna quando tutta la realtà è già dentro di lui?

Egli naturalmente svolge tutto ciò perché non può esimersi di essere se stesso in una in finitezza dell’esistente, non può evitare parlando a se stesso di echeggiare nell’Universo, possedendo la natura del moto, l’efficienza dell’individualità pensante, della coscienza intelligente, egli non può non essere nel mondo, ma questo essere nel mondo non deve significare che esista una necessità infinita.

Esiste una necessità funzionale a questa evoluzione, esiste una maniera di presentarsi all’attenzione del mondo e ricavare dal mondo essenze, stimoli, verifiche sull’esistenza della creazione, sull’esistenza di Dio. Ma tutto ciò viene fatto come un’operazione singola e singolare, alla pari del processo critico delle cose che ciascuno di voi può fare in se stesso, indipendentemente dal fatto se lo fa con gli altri o se lo fa da solo.

D – Dio può avere emanato piani di esistenza o categorie di Spiriti che non incontreremo mai ?

A – E’ una domanda che mi è già stata fatta.

D – Si, é che volevo una conferma, perché fu risposto che era possibile. Ma allora noi come potenzialmente perfetti dovremmo arrivare anche a quel piano di conoscenza.

A – Certamente, ma anche questo lo definirei uno pseudoproblema perché devo dirti che anche alla tua ragionevolezza appare chiaro che se voi vi considerate Spiriti con valore 10, devono esistere Spiriti con un valore, ad esempio, 1000 che in questo momento tu non riusciresti proprio a concepire, perché l’esistenza di quegli Spiriti sarà talmente diversa da poterla considerare veramente di un altro piano.

Nell’infinito si pone questo problema, infatti. Se la creazione di Dio è infinita, come è infinita, se voi e noi, voi viventi e noi che lo siamo stati, e voi che poi sarete Spiriti o ancora viventi, noi comunque siamo una delle apparenze di questo infinito, o una delle proiezioni di questo infinito, fatti nel modo come siamo fatti; potrebbero esistere Spiriti talmente diversi e universi tanto diversi da apparire pressoché sconosciuti, cioè di una natura, di una sostanza, di una finalità completamente diversa od opposta, o comunque inconoscibile rispetto alla nostra.

Può Dio aver creato infinite categorie di Spiriti sostanzialmente, strutturalmente diverse le une dalle altre, dal momento che Lui è infinito ? Naturalmente ad una domanda del genere non si può rispondere che sì, perché non si può togliere nulla a Dio senza sottrargli l’infinito, senza comunque menomare la definizione di infinito che è intoccabile perché una cosa infinita non può mai essere finita.

L’infinito concepisce solo l’infinito e non può concepire il finito. Le costruzioni finite all’interno di un infinito non esistono; tutte le strutture sono apparentemente finite, ma devono essere necessariamente infinite perché fra loro concatenate per il princi-pio di infinito.

Non si può pensare che l’infinito sia costituito da catene di segmenti finiti perché l’infinito di cui stiamo parlando non è un infinito geometrico, ma un infinito concettuale, matematico, per cui ciascuna frazione di questo infinito ha i caratteri dell’infinito; per lo Spirito deve accadere qualcosa del genere.

Ma attenzione, è vero che questa è la nostra prima risposta: devono esistere. Però riflettiamo un momento: nel conferire a cia-scuno di noi il carattere di infinitezza, non incappiamo forse nel-l’altro principio e cioè che la nostra infinitezza comprende la stes-sa natura di infinito di cui stiamo parlando quale attributo privi-legiato di Dio ?

Se Dio non ha la possibilità di creare infiniti segmenti finiti, perché tutti sono infiniti promanando da Dio, Dio stesso sembra essere legato alla sua natura e dunque tutto ciò che è prodotto da Dio ha i caratteri di Dio; questa proiezione che comprende lo Spirito e che fu creativa nel momento in cui fummo emanati, non può che contenere lo stesso tipo di infinitezza di cui si serve Dio per essere se stesso, e questa infinitezza significa che noi possediamo nella nostra struttura potenzialmente anche i processi di trasformazione per portarci su altre situazioni esponenziali dell’infinito; significa che lo Spirito contiene anche ciò che non appare in questo apparente segmento dell’infinito Universo in cui viviamo, e che in noi c’è anche l’altro infinito, cioè lo stesso infinito che è in Dio è anche in noi perché la nostra è una natura riflessa.

Di conseguenza esistono infiniti universi costruiti strutturalmente in modo diverso dall’Universo come noi lo concepiamo, ma questi infiniti universi appartengono al potenziale che noi possediamo in noi stessi, perché se siamo di natura divina dobbiamo possedere lo stesso potenziale che Dio ha trasferito in ciascuno di noi. La differenza tra noi e Dio è che in noi l’infinitezza è potenziale mentre in Dio è reale.

Noi possederemo la coscienza attraverso un processo evolutivo infinito mentre Dio non è assoggettato al processo evolutivo per-ché è già l’infinito; noi, ripeto, l’infinito lo possediamo potenzial-mente mentre Dio lo possiede integralmente; noi abbiamo bisogno di un camminamento, di un’evoluzione, di un processo di incon-tro, di discoprimento in noi stessi, sia pure attraverso l’Universo, ma in noi stessi. Dio è già discoperto a se stesso, non è un soggetto in evoluzione, perciò è Dio. La differenza è questa e, come potete capire, è la differenza primaria che distingue la divinità da tutti gli altri successivi processi della natura, dell’Universo, del creato, e allora di fronte a questi problemi così grandi, difficili (ma non troppo se si presta attenzione e si ragiona bene), è chiaro che lo Spirito così creato con un potenziale infinito così immenso, è necessariamente un essere unico e solitario, in cui però il processo della solitudine è puramente esteriore.

In realtà un essere spirituale con questa ricchezza, con questa potenza, con questa capacità di esprimersi nell’eternità e nell’in-finito, come potrebbe considerarsi limitato da un’eventuale solitu-dine quando egli è il riflesso speculare della divinità, quando egli (ciascuno di noi) rappresenta la divinità sia pure con la differenza primaria tra l’essere potenziale e l’essere reale ?

In questo senso ed in questo segno noi siamo tutti figli di Dio, perché più figli di così non si può essere. Noi siamo la lunga mano, potenziale, di Dio, appendici della divinità; siamo sempre in Dio, solo che non ce ne accorgiamo, non lo sappiamo in par-tenza e lo dobbiamo riconoscere attraverso il lavoro soggettivo e personale poiché Dio ha conferito a ciascuno di noi il carattere individuale; bisogna che ciascuno di noi coscientemente si autoriconosca.

Lo Spirito ha già tutto, possediamo tutto, possediamo l’Universo, ma lo dobbiamo discoprire, dobbiamo camminare, muoverci, evolverci; in questa evoluzione capita che veniamo sulla Terra, siamo assoggettati ai corpi e quindi abbiamo dei momenti di panico, di sofferenza, di divisione dal mondo, di divisione da Dio, da noi stessi, possiamo essere confusi, abbiamo apparentemente la morte, e poi apparentemente la vita, che sono in realtà concetti antitetici e che non ci appartengono in quanto Spiriti.

Noi siamo e basta, non ci domandiamo se siamo vivi o siamo morti, queste sono le contraddizioni e le contrapposizioni tipiche della materia, non dello Spirito. La materia è caduca, la materia si trasforma, essa non è più se stessa e diventa altro mentre noi Spiriti restiamo perennemente noi stessi, la nostra coscienza, il nostro io vivente, il nostro essere in noi stessi per l’eternità e questa è una cosa che solo lo Spirito possiede in sommo grado.

D – Negli ultimi tempi mi sto interessando ai filosofi presocratici, in particolare a Parmenide (1), e la tua lezione me lo fa capire ancora meglio tanto che ho pensato che lui fosse un medium o almeno un soggetto estatico di grande potenza, perché aveva in-dividuato tutti questi punti che tu ogni volta ci spieghi con sempre maggiore chiarezza.

A – Naturalmente non si tratta di essere l’uno o l’altro perso-naggio: la realtà è che anche un essere umano, quindi ancora sog-getto alla schiavitù del corpo, può, isolandosi, staccandosi dalla realtà banale, concepire un tipo di verità simile a quello che vi ho esposto poco fa. Il problema – che è un problema di educazione mentale – è quello di spostare il proprio livello.

Avrei potuto facilmente parlare della solitudine nel senso proprio umano, quindi individuare i casi personali di ciascuno di voi. Lo so benissimo, siete soli perché avete bisogno di compagni, di figli, della donna o dell’uomo, qualcuno ha problemi di lavoro, di mancanza di famiglia, oppure gli è finito male il matrimonio, conosco bene questi problemi, sono quelli tipici dell’uomo.

Però se avessi abbassato su questo livello il discorso non avrei più fatto filosofia, nel senso aureo, e vi avrei dato magari un buon esempio di psicologia che non ha nulla da spartire con la filosofia, vi avrei dato altre cose, ed invece è necessario inquadrare la situa-zione dall’alto, vedere le cose al di là delle apparenze e delle necessità dell’uomo, per stabilire dei principi entro i quali l’uomo è costretto a fare riferimento.

Si può fare un riferimento alla vita di tutti i giorni, ma si do-vrebbe farlo assumendo prima i principi teorici di una impostazione globale più ampia; bisogna cioè superare la Terra e poi far discendere in se stessi anche i discorsi delle necessità quotidiane, peral-

(1) Parrnènide di Elea (circa 520-440 a.C.) filosofo greco del periodo classico di cui le maggiori notizie si hanno dal dialogo di Platone intitolato al suo nome; peraltro, alcuni studiosi del passato furono indotti a dubitare dell’autenticità del dialogo e forse anche per questo “A” nel rispondere elude la domanda e continua nell’esposizione del suo pensiero.

tro non banali; riconosco l’importanza di queste forme nell’essere umano. Dico però che se si riesce a stabilire un sano discorso propedeutico a monte del discorso psicologico, molti comporta-menti psicologici potrebbero essere svolti su piani diversi. Molte volte voi soffrite per mancanza di una visione di fondo del proble-ma della vita; invece potendolo esaminare sotto un aspetto più universale, generalizzato, è possibile poi avere delle applicazioni pratiche meno dolorose, meno dure e più istruttive.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *