L’EGOCENTRISMO.

 15) – L’EGOCENTRISMO.

D. – Come può conciliarsi l’altruismo cristiano con la necessità, anche economica, di fare delle esperienze per le quali occorre possedere qualcosa?

A. – In altri termini, volendo vivere una vita cristiana si dovrebbe essere talmente altruisti da dare tutto, ma questo significherebbe non poter più svolgere le proprie esperienze, che invece possono avere magari bisogno di un egoismo di natura economica eccetera. Rispondo subito; non è affatto necessario privarsi dei propri averi per darli ai poveri, anche perché se si facesse una cosa del genere, nel breve spazio di qualche anno non ci sarebbero più poveri. Se si facesse una cosa del genere, i poveri diventerebbero ricchi, e i ricchi diventerebbero poveri, e i nuovi ricchi avrebbero naturalmente il dovere inverso di restituire gli averi agli ex ricchi, ora poveri (Il Maestro Andrea imposta la questione come paradosso teorico, il quale implicherebbe una visione e applicazione totale e univoca del concetto cristiano da parte di tutti, cioè con una proiezione utopica; in altre comunicazioni il tema è trattato invece nel senso di una maggiore uguaglianza e ridistribuzione delle ricchezze del mondo, cose ora estremamente disuguali. – Nota del curatore.). In questa sorta di rimbalzo non si finirebbe più, quindi il fatto in sé portato al limite diventa ridicolo. Il fatto è un altro, ed è che ciascuno deve dare e fare, ma nell’ambito delle proprie inclinazioni, delle proprie tendenze e in misura proporzionale ai propri bisogni, alle proprie necessità, alla propria evoluzione. Anche se esistono persone che intendono sfruttare questa esperienza fino in fondo, cioè nel dare tutto, in realtà nel dare si esaurisce la loro esperienza. A questi non interessa dunque più svolgere un’altra attività, perché l’attività è quella di dare, di fare questa carità. L’uomo deve essere egoista quel poco che è indispensabile alla conservazione di se stesso. Naturalmente, la carità non è l’unica cosa da fare in Terra e si è sempre esagerato con questo fatto. La carità innanzitutto si fa in tanti modi; tu puoi fare la carità non dando denaro, ma facendo un altro tipo di bene.

D. – Al limite, se uno volesse essere altruista anche in questo, in fondo si svuoterebbe. Lo stesso cristianesimo toglie una certa spinta, una certa carica aggressiva, quindi è difficile trovare il giusto equilibrio. Secondo me, un certo tipo di egoismo è necessario per svolgere una certa attività, perché anche il darsi, non economicamente, ma in un altro senso, in fondo svuota, aliena, distrae…

A. – Qui non si deve parlare di carità in senso stretto. Diciamo che l’uomo deve tendere alla generosità, più che alla carità. La generosità, in un senso diverso dalla carità propriamente detta, è quella disponibilità che l’uomo deve continuamente avere nei confronti degli altri. In questo senso c’è generosità e c’è carità. Che poi si possa anche giungere a contribuire alla vita degli altri in maniera più tangibile, occasionalmente o ripetutamente, questa è una parentesi che può aprirsi e chiudersi per ogni episodio; ma l’individuo deve essere generoso sempre, e questa generosità – che poi diventa altruismo – non significa carità in senso stretto, ma amicizia col prossimo. In altri termini, questa amicizia o generosità o carità, l’uomo la può esplicare in mille modi senza che ciò sia inteso nei termini di ricchezza e povertà.

D. – È difficile che un egocentrico arrivi a fare questo, e per fare determinati lavori bisogna essere egocentrici.

A. – Tu puoi essere egocentrico nel tuo lavoro, ma non come essere umano inserito in una società. Si può sempre conciliare il tutto. Poi, egocentrico cosa vuol dire? Badare esclusivamente a se stesso senza preoccuparsi degli altri? Dipende, anche qui, da caso a caso. Se gli altri dipendono da noi o possono dipendere da noi, noi non possiamo essere egocentrici, dal momento che ci siamo circondati di questi altri; famiglia ecc. Oppure si è egocentrici vietando agli altri di possedere o assorbendo la loro esperienza.

D. – Penso che se si è una persona sensibile si viene continuamente intaccati. A questo punto ci si deve difendere con un po’ di egoismo, anche se è una cosa che va contro la vostra dottrina.

A. – Lo so, ma vedi, il punto è che non sono importanti le cose che voi fate, ma sono importanti i rapporti che voi instaurate con gli altri. Io capisco quello che vuoi dire, ma il lavoro che ciascuno di voi fa: l’artista, il medico, l’avvocato, l’operaio, qualunque sia il lavoro, in se stesso non conta niente, cioè non vale niente, è un lavoro che fanno anche gli altri, che faranno i vostri successori, i vostri figli; i vostri antenati li avevano fatti e non è tanto importante questo. Quello che è importante è la maniera con cui voi realizzate la vostra vita in rapporto e in funzione della vita degli altri, e da questo che voi traete esperienze, in fondo. Perché le azioni di disturbo che vengono dalla società, o dal mondo, sono quelle azioni che poi trasformano la vostra esperienza umana – non la vostra esperienza professionale, ciò che fate – ma la vostra esperienza umana. Se voi siete più saggi come spiriti e come uomini, ciò non dipende dal tipo di lavoro che fate, ma dal modo come lo fate, inserito in un contesto umano. Il fatto che voi possiate egoisticamente pensare soltanto a voi stessi per portare a termine un vostro lavoro, una vostra attività, e quindi non interessarvi del prossimo che vi circonda, rischia di trasformarvi in egoisti e fa supporre che veramente la cosa più importante sia la vostra vita. C’è insomma il pericolo che la cosa diventi fine a se stessa. L’ideale è sempre quello di tentare una conciliazione, oppure di operare già durante il corso della propria vita scelte e decisioni che, perlomeno, non vi mettano poi in condizione di dover scegliere in maniera radicale. Questo è il punto.

C’è chi vuole dedicarsi esclusivamente alla ricerca e, se già sa di dover diventare egoista, deve cercare di non crearsi legami tali che possano poi costringerlo a compromessi o a situazioni dolorose. In fondo questo era l’obiettivo degli eremiti. L’eremita si staccava dal mondo tentando di porsi in un contatto solitario con Dio. È un po’ staccarsi dal mondo fare come colui il quale vuole dedicarsi solamente ai fatti personali. Come, per esempio, il ricercatore di laboratorio il quale vuole stare davanti al microscopio giorno e notte perché ha il pallino di vivere la vita in quel modo: bene, un individuo del genere deve stare molto attento, altrimenti crea intorno a sé delle grandi infelicità. Un individuo del genere deve evitare di avere una famiglia, dei figli, altrimenti diventa responsabile di ciò che non dà alla sua famiglia…

D. – In fondo, molti di coloro che hanno fatto grandi scoperte hanno creato infelicità attorno a sé. Se si vuol fare qualcosa d’importante bisogna pure mettere qualcuno sotto i piedi.

A. – Non è così. Non bisogna allora determinarle queste cose, in modo da mettere “sotto i piedi” proprio niente. Il discorso potrebbe spostarsi sulla questione del celibato dei sacerdoti, per esempio. Cioè, un individuo che ha una missione ben precisa nella vita e che serve alla collettività, fino a che punto può impegnarsi con una propria famiglia? Il discorso è un po’ lo stesso. Chi vuole avere una famiglia più grande (la società) deve rinunciare a una famiglia più piccola. Le cose possono anche essere conciliabili, d’accordo, ma solo in base al carattere di ciascuno di voi, diventando allora dei casi personali.

D. – Il sentirsi alle volte schiacciati, alienati, penso che possa essere un’esperienza utilissima.

A. – Indubbiamente, questo effetto un po’ stressante dell’ambiente può anche essere utilissimo. Dipende poi dal tipo di lavoro che ciascuno fa. Può essere utilissimo, però può anche darsi che schiacci del tutto l‘individuo, perciò si deve trattare sempre di casi individuali…

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