Una grande lezione di filosofia
IL PENSIERO METAFISICO DI ,,A» ATTRAVERSA TUTTA LA FILOSOFIA DA PLATONE AD HEIDEGGER
di Daina Dini
Dal Dio teorico al Dio esistente
Quarant’anni di A hanno significato per tanti di noi una presenza intelligente e coerente che ha accompagnato la nostra vita, le nostre aspirazioni, i nostri errori e le nostre maturazioni, ed ora che il grosso del corpo dottrinario può dirsi ormai trasmesso, è doveroso e lecito non solo soffermarsi a valutarne la portata — anche sistematica — nella sua interezza, ma iniziare anche un lavoro tanto di analisi che di ampliamento e commento alla sua dottrina: lavoro mai fatto e che si apre interamente al futuro.
Certamente le comunicazioni di A finiscono col costituire un sistema filosofico, ma esse sono anche molto di più, in quanto tutto il messaggio si propone come applicativo, oltre che teorico-teoretico: esso è cioè mirato all’integrazione col vissuto personale, che diventa ad un certo punto una tappa imprescindibile per il proseguimento dell’evoluzione delle proprie capacità conoscitivo-esperienziali.
In un modo forse più affine ai grandi sistemi iniziatici orientali, quello di A è un insegnamento che, per propria naturale disposizione, oltre a teorizzare la vita intende vivificare la teoria attraverso una attiva verifica interiore e comportamentale. Questo non deve lasciar credere che A ci abbia trasmesso una ideologia, nel senso di uno schema preformato di pensiero da adottare, chè anzi la sovrastruttura ideologica costituisce proprio quel primo strato falsificante ed alienante che ostacola la libera espressione in ciascuno di noi della propria interiorità.
Ideologia vuol dire negazione di libertà — non importa quanto santa o giusta sia la causa!
Invece A ci insegna a ricercare e perseguire una libertà più autentica e profonda, che sola può garantire alla nostra anima individuale di manifestare se stessa al mondo ed alla nostra coscienza.
In una strutturazione costantemente dialettica della dottrina, A ha sempre tenuto conto, durante questi lunghi anni, della maturazione e dell’evoluzione che col passare del tempo e degli eventi avvenivano in noi, per cui tornare sullo stesso argomento voleva dire reinterpretarlo sulla scorta di nuove prospettive ed acquisizioni e quindi, in un processo sempre rigorosamente logico e razionale, amplificarne proporzionalmente la portata.
Nell’ambito dell’accettazione, ormai incontrovertibile, della relatività di ogni verità cui possiamo accedere durante la nostra esperienza materiale, A ci consente di vivere in prima persona il susseguirsi di parziali verità che divengono via via sempre meno parziali, verità imperfette sempre meno imperfette, ci fa percorrere coscientemente, insomma, un tratto d’infinito.
E tutto questo in modo tanto più evidente quanto più l’argomento è complesso e significativo, sino a giungere a quello che, in questa chiave, possiamo ben definire il significante infinito: Dio.
La dottrina di A si fonda proprio sulla Sua esistenza e, conseguentemente, sull’esistenza in noi di un’anima immortale: assunto coraggioso in una età in cui di Dio si è parlato solo per dichiararne la morte.
Attraverso un mosaico dialettico, sempre coerente, sempre limpidamente razionale, A spinge il nostro pensiero verso limiti estremi, allo sfibrarsi delle categorie, e di qui oltre, con intuizioni sfiorate, con abissi intravisti, egli apre la strada alle nostre coscienze dalla mistica avvizzita perché trapassino da un Dio inaccettabile ad un Dio talmente possibile da diventare meravigliosamente probabile.
E tutto questo senza imposizione dogmatica, senza mai sfruttare il suggestivo carisma del Verbo, ma incitandoci sempre ad attuare uno sforzo individuale di penetrazione in sé e fuori di sé (confini che ad un certo punto perdono di definizione), per ritrovare, agostinianamente, conferma di quanto all’esterno è supposizione ed all’interno è verifica.
In questo senso la dottrina di A può dirsi autenticamente escatologica, in quanto apportatrice di salvazione proprio ove ve ne sia un bisogno reale, immediato, presente, dunque nella fase incarnativa, poiché è qui che l’uomo manca di appigli, è qui che l’uomo rischia di essere sopraffatto da una disperazione troppo tremenda per poter essere sopportata.
E invece, una volta ‘morti’, non ci saranno colpevoli o innocenti vincitori o vinti agli occhi di Dio, poiché noi tutti, né santi né dannati, siamo sempre e comunque entro questo Dio infinitamente infinito, e l’unica giustizia cui saremo sottoposti sarà quella — forse incomparabilmente più severa — dell’autovalutazione dei nostri atti, processo che non avrà altra funzione che quella di aprirci ad ulteriori ambiti esperenziali e conoscitivi.
Mettendoci in condizione di rintracciare le orme di un Dio diversamente immenso, il messaggio di A ci riscatta autenticamente dal nostro destino di dolore.
Dio come realtà
L’immagine di Dio che si evince dalle affermazioni di molte filosofie e religioni, costituisce spesso più che altro una irrealtà, in quanto a volte essa in filosofia serve a giustificare e sorreggere un qualche impianto teorico alla ricerca di fondamenti, e più di frequente, in ambito religioso, essa finisce con lo slittare in una prospettiva iconografica, a vantaggio di preponderanze rituali o di figure intermedie che, unitamente all’elemento dogmatico-fideistico, vengono a costituire una barriera insormontabile tra l’uomo e il divino.
Dio è sempre al di là di qualcuno o di qualcosa e l’uomo ha via via rinunciato a ricercarne i segni, anche perché, insoddisfatto dalle descrizioni assurdamente antropomorfiche, riferibili tutt’al più ad una gran brava persona, ma non certamente ad un ente divino che, per essere tale, deve necessariamente rispondere a certi attributi: e qui il linguaggio già ci tradisce intrappolandoci nelle sue categorie, in quanto il ‘deve’ ed il ‘necessariamente’ sono un nostro limite, e non certo un limite di Dio.
Dio oggi costituisce una Assenza, ma una assenza tanto gigantesca da rivelarsi, vera Fenice che risorge dalle ceneri, prepotentemente presente data l’immensità del vuoto morale che una simile assenza ha finito col comportare.
Nella esposizione di A Dio veramente è: Egli costituisce una Presenza assoluta pur nella sua infinita ineffabilità ed irragiungibilità, una Presenza che è intima connaturazione e che — via via che ci si addentra nel cuore del messaggio — inizia a collocarsi in una dimensione logica, filosofica, morale, tanto coerente e tanto coerentemente necessaria, tanto giustamente onnicomprensiva, che proprio noi, partiti per ‘definirla’, scopriamo di trovare in essa la nostra naturale collocazione.
Nelle parole di A: «Dio indubbiamente è anche realtà, ma è tale in quanto la sua idea e la sua effettiva esistenza vengono ad essere inquadrate in una stabile idealità dell’esistere, perché soltanto quando l’idea di Dio risulta ‘economicamente’ valida, solo allora può affermarsi che Egli effettivamente esiste ed è realtà. Quando cioè la sua essenza è tale secondo l’aspetto soggettivo ed obiettivo della questione, quando il suo aspetto razionale e la sua essenza appaiono tali che la sua effettiva esistenza risulta valida ed indispensabile.»
Le categorie e i limiti della mente
Il Dio che A cerca di farci intravedere si pone, dal punto di osservazione umano, quale sintesi di contrari, come intuì Eraclito. A compie uno sforzo poderoso per farci comprendere come le nostre definizioni categorizzanti ci portino comunque a conclusioni troppo parziali che divengono poi falsanti per la nostra stessa comprensione.
È sempre stata, questa, una difficoltà enorme che ha finito col spingere molte menti all’ateismo, poiché ogni spiegazione, ogni definizione relativa a Dio, tra quelle offerte dalla filosofia o dalla religione, sembrano tutte talmente riduttive da non potersi giudicare che false.
Questo certamente fu intuito da Plotino, che diceva che di Dio non era possibile affermare nulla, poiché darne una qualsivoglia immagine vorrebbe dire ridurlo infinitamente, ‘inscatolarlo’ in un concetto che finirebbe con l’apparire troppo misero persino agli occhi di chi l’ha formulato.
Questo atteggiamento, però, finisce col nascondere un’altra insidia, poiché l’impedirsi di dare attribuzioni .a Dio potrebbe sfociare in quella limitazione del pensiero reclamata dalla dottrina Cattolica in nome della necessità di una fede cieca ed assoluta.
Certamente esiste (soprattutto relativamente ai limiti della nostra mente, quei limiti compresi da Kant con tanta lucida sofferenza) un infinito ambito di imponderabilità relativo a Dio, ma questa consapevolezza non deve trattenerci dall’indagare, anzi la difficoltà dell’impresa deve spingerci a sfruttare appieno sotto tutti gli aspetti le nostre capacità e non limitarci all’unica funzione conoscitiva ormai, per noi occidentali, divenuta cano-nica, ossia la razionalità.
A ci mostra che, passo passo, possiamo spingerci più avanti di quanto sin qui è stato affermato o immaginato, sfruttando al massimo la nostra razionalità e poi, quando essa giunga al proprio limite, cercando l’intuizione, ampliando il proprio ambito di coscienza, in una parola superando noi stessi.
Luoghi comuni sulla natura di Dio
Una contrapposizione classica, in filosofia, è quella tra le teorie emanentistiche e quelle creazionistiche, relativamente al modus operandi divino.
Tornando alla precedente citazione della parola di A, vediamo in esse riecheggiata quella distinzione tra essenza ed esistenza che, sorta nell’ambito della scuola di Chartres, sarà ripresa da Tommaso d’Aquino: Dio è l’essere la cui essenza implica l’esistenza. Questo concetto serve a Tommaso per confermare, in Dio, l’atto creativo.
Questo è uno dei punti nodali delle interrogazioni filosofico-religiose su Dio.
Per tutti i filosofi di tradizione cristiana, l’opera di Dio è creazione, in opposizione alla corrente neoplatonica secondo la quale invece si tratta di emanazione. Chiarire i termini di questa antitesi significa iniziare a strutturare l’ipotesi su Dio.
Il Neoplatonismo, dunque, fa derivare l’Universo da Dio per emanazione: dall’Uno, che è al di là dell’essere, della mente e della sostanza (nelle parole di Plotino) emana tutta la creazione, per un processo spontaneo, naturale, che non si diparte da alcun atto volontaristico che vorrebbe dire in Dio un mutamento, laddove Egli nella sua essenza non subisce evoluzione.
Alla concezione emanentistica si oppone quella della creazione dal nulla, propria del Vecchio e Nuovo Testamento, che implica il problema se la creazione sia o meno da reputarsi ab aeterno.
Per A questo è un falso problema, in quanto se tra le qualità di Dio noi poniamo l’eterno, l’assoluto e l’infinito, anche la manifestazione deve partecipare in qualche modo della Sua natura, il che vuol dire che l’Universo — inteso quì non come galassie, ma come forza, equilibrio, energia, estrinsecazione, dinamicità, attività — deve essere sempre esistito (ché altrimenti in Dio si sarebbe, ad un punto, aggiunto qualcosa; Egli non sarebbe cioè Assoluto), almeno in quanto forza, almeno in quanto potenzialità, in Dio stesso.
Dice A: «Dio non crea, perché creare significa trarre dal nulla. Egli non trae dal nulla, ma da se stesso. Tutto esiste già in Dio, poiché Egli è eterno ed infinito e le sue idee sono infinite, non solo in senso qualitativo ma anche quantitativo. Ma le idee prendono corpo, diventano indipendenti: le idee in Dio sono potenziali e tutta la realtà è sempre esistita in Lui. Possiamo porre teoricamente una differenza tra realtà potenziale e realtà in atto: la realtà in atto è realtà potenziale che diventa autonoma».
Ecco, in tutta logica ed in tutta semplicità, risolta l’antinomia potenza/atto: la realtà in atto è realtà potenziale che diventa autonoma e la distinzione è fatta a tutto uso e consumo delle nostre categorie.
In questo brano balza evidente il collegamento con la filosofia platonica che costituisce per A un costante riferimento relativo ad alcuni punti chiave, quale quello di porre la nostra più autentica realtà in ambito trascendente.
Ma una volta stabiliti alcuni fondamenti comuni, il pensiero di A, sospinto da una invincibile carica di originalità, si distacca e si personalizza.
Superamento del dualismo materia spirito
A differenza di Platone, che considera — come accadrà a tanti altri filosofi e mistici — la materia come qualcosa di negativo e disarmonico (oltretutto preesistente all’atto semplicemente ordinatore del Demiurgo), per A materia e spirito, pur essendo sottoposti a leggi diverse, comunque provengono dall’unica matrice divina: ecco che non può esservi separazione né opposizione che implichino un criterio di valutazione posi-tiva o negativa, una opposizione tra bene e male. Si verifica semplicemente un sottostare e rispondere a leggi particolari e diverse che si riferiscono comunque ad una gamma unitaria di principi primi universali, che appunto rispecchiano la matrice divina.
Quindi il dualismo spirito-materia è certamente segno di una eterogeneità, al di sotto della quale tuttavia giace una omogeneità di fondo: dunque nessuna negatività nell’universo materiale, solo un altro da sé che lo spirito indaga in quanto comunque emanato da Dio e come tale segno, segnale, strumento di conoscenza ed evoluzione.
Ma su questo punto fondamentale torneremo tra breve.
Tutta la realtà, quindi, è sempre esistita in Dio allo stato potenziale, ed attraverso l’emanazione essa si attualizza e diviene autonoma.
Attenzione a non lasciarci tradire qui dalla limitatezza del nostro linguaggio: ciò non implica che l’emancipazione abbia avuto un principio, essa è attività divina eterna quanto eterna è la sua stessa Matrice.
Qui il pensiero di A si distacca totalmente dalla concezione creazionistica di Tommaso che, negando che in Dio vi sia un’essenza che sia potenza, finisce (definendoLo Atto Puro) col farlo implodere in se stesso e col relegare la creazione in una sequenza temporale. Per A, invece, abbiamo visto come questo tipo di opposizioni (potenza/atto) abbiano un senso esclusivamente teoretico, funzionale alla geometricità del nostro intelletto, tanto inadeguata a cogliere anche un brandello d’Assoluto!
Alla riduttiva immagine creazionistica, A oppone questa infinita, eterna, continua esplosione, nella quale Dío non si esaurisce, in quanto Egli è anche qualche altra cosa di totalmente ineffabile, prima dell’universo, dei principi e delle leggi. È il Suo pensiero a farsi principio, realtà; e per l’emanato, essere divenuto atto, significa aver acquisito una esistenza autonoma, pur restando sempre in Dio che in quanto infinitamente infinito eccede sempre l’emanato.
Leggiamo qui una fondamentale diversità con le concezioni filosofiche orientali, nelle quali prevale un più stretto legame con la fonte divina, una relazione maggiormente necessitante, mentre nel pensiero di A si evidenzia questa concezione autonoma degli elementi del creato in cui lo spirito e l’universo, una volta emanati, non hanno più bisogno di Dio.
Ciò si ricollega anche all’idea del ricongiungimento con Dio, tipica delle dottrine induiste, alla quale come vedremo la dottrina di A si oppone con logica irrefutabile.
Ma in che senso va letta questa autonomia ? Essa indica che, in quanto emanati, spirito e materia non sono una estensione della sostanza divina, ma ne sono una proiezione, un attributo (infatti Dio non potrebbe né aumentare, né diminuire).
Nell’attimo eterno dell’emanazione, l’emanato possiede già tutto in senso potenziale, in quanto proiezione, riflesso di Dio, già inserito nell’equilibrio universale, in armonia con leggi e principi eterni come il Fattore. Non c’è più bisogno di Dio, e l’emanato vive la propria autonoma esistenza: l’oggetto-creazione conserva in sé il suo significato, è segno, è orma di Dio.
Appare chiara qui una netta confutazione del panteismo, come comunemente inteso dalle dottrine panteistiche, soprattutto nel Deus sive Natura’ spinoziano, in cui Dio finisce col frantumarsi, con l’essere come risucchiato negli infiniti rivoli dell’universo.
«Dio manifesta intorno a sé ed in sé — dice A — ciò che possiede potenzialmente e lo estrinseca in ogni dimensione infinita; però la possibilità e la potenza di Dio fanno sì che in Lui esista oltre a ciò che manifesta, anche ciò che non manifesta oltre il limite infinito della sua potenzialità. Se pensassimo Dio come una forza infinita avente una localizzazione infinita, Dio risulterebbe come il finito dell’infinito, avrebbe cioè una limitazione infinita. Ma Dio è anche qualcosa in più ed oltre».
Anche qui non si può fare a meno di osservare, a costo di ripeterci, come (fatta salva la negazione del panteismo in senso spinoziano come dissoluzione dell’Ente divino) panteismo e trascendentismo costituiscano anch’essi una contrapposizione teoretica che di fronte alla grande unitarietà della concezione del divino e dell’esistente in A vedono vanificato il proprio senso.
Ancora, si divisa qui il problema della staticità o dinamicità di Dio, anch’esso un classico in filosofia.
Per Aristotele il Primo Motore non può essere che immobile in quanto atto puro (ecco la radice della concezione tornistica), quindi senza possibilità di moto e divenire.
Per A il moto è indissolubilmente legato all’attributo divino dell’esistenza e dell’intelligenza, per cui ciò che è esistente è anche moto in quanto è vita, né è concepibile una intelligenza che essendo viva non sia anche esistente, benché, dice A, sia paradossale parlare di Dio nella contrapposizione spazio-temporale della vita e della morte.
In ogni caso, per emanare fenomeni in cui sia riconoscibile un principio intelligente, l’intelligenza deve necessariamente trovarsi anche in Dio, e lo sarà ad un livello infinito; essendo l’intelletto stesso in quanto tale un principio imprescindibilmente dinamico, capace di organizzare le estrinsecazioni in tante manifestazioni armoniche, esso non può collegarsi ad alcunché di statico: «Dio esprime ciò che è — dice A —, e ciò è continuamente rinnovato. L’atto della creazione del pensiero di Dio è una modulazione interiore continua, infinita, che si trasforma continuamente in atto».
Il pensiero ha in sé il moto: se questo finisce, cessa anche il pensiero.
Il moto è possibilità di estrinsecazione e di attivizzazione, e non può essere nullo in Dio. Se così fosse, non potrebbe sussistere il principio dell’equilibrio, che non sarebbe più dinamicamente sorretto (poiché di equilibrio dinamico si tratta) dalla forza iniziale.
Antinomie divine:
assoluto/relativo/lontano/presente/infinito
L’interrogativo estremamente interessante che qui si pone è quello relativo alla ‘personalità’ divina.
Infatti se parliamo di un attributo di intelligenza, possiamo supporre l’esistenza di una qualche per noi inimmaginabile forma di autocoscienza in Dio? Dio, in una parola, sa di essere, conosce se stesso?
Certamente non ci si riferisce qui ad un Dio personale o personalizzato.
Non potendo esimerci dall’utilizzare il nostro riduttivo linguaggio, possiamo dire che si tratta di una personalità infinita e non infinitamente finita, ma infinita ed assoluta.
E’ qui chiarissima la differenziazione dall’Universo (che ulteriormente confuta il ‘Deus sive natura’): mentre Dio è infinitamente assoluto, l’Universo è infinitamente definito…
Dunque Dio è un esistente intelligente: Egli non è solo una forza, ma è ciò che si trova al di là della forza, al di fuori della creazione, al di là dell’atto creativo.
L’intelligenza per Dio è il suo stesso stato d’essere: Dio sa di essere Dio.
Per questo la spinta conoscitiva è l’autentico fondamento della natura spirituale.
Ci occuperemo adesso, per tentare di chiarire ulteriormente le modalità dell’esistenza spirituale, di due temi cari all’induismo, che si ritrovano quasi inalterati nella filosofia di Plotino: il riassorbimento dello Spirito in Dio come fine ultimo di ogni esperienza, ed il liberarsi dei negativi legami corporei attraverso la rinuncia e la funzione catartica della virtù.
Essere riassorbiti in Dio significherebbe, dice A, la fine del-l’individualità, dunque la morte dello spirito; esso non sarebbe eterno, non percorrerebbe l’infinito, ma solo il tratto che lo separa da Dio.
Ma un Dio raggiungibile è anche un Dio limitato: l’unica garanzia all’eternità dello spirito sta proprio nell’impossibilità di questo ricongiungimento.
Lo spirito eterno percorre l’infinito, in esso leggendo con chiarezza crescente l’impronta del Creatore, ma pur sempre restando da Lui — infinito — infinitamente distante.
Questa infinita distanza che, malgrado il percorrimento conoscitivo dell’infinito, resta eternamente infinita, questo infinito in progresso è il vero garante dell’eternità dello spirito, è la chiave dell’amore (se di amore possiamo parlare) che Dio ci porta, per averci dato vita autenticamente eterna, è il vero senso della fratellanza universale, poiché, qualunque sia il grado di conoscenza di ogni singolo spirito, egli comunque sarà rispetto a Dio ad una distanza infinita, dunque eguale per tutti.
Per quanto riguarda il considerare come negativa l’esperienza materiale, corporale, come si è detto ciò costituisce la chiave di volta di molte correnti di pensiero filosofico o religioso.
L’illusorietà della percezione, la relatività del reale, le sofferenze della carne, i dualismi e contrasti tra vita ed interiorità, hanno contribuito ad esaltare, in nome di una finalità pseudo-spirituale e catartica, delle tecniche o atteggiamenti di rinuncia, rifiuto o macerazione rispetto alla vita del corpo.
Una delle novità più affascinanti della dottrina di A consiste proprio nella rivalutazione della materia e dell’esperienza materiale — e non certo in senso epicureo — nella banalizzazione del termine, ma per un doppio motivo:
a) di per se stessa la materia è creazione divina; in quanto tale non va sottoposta a giudizio di valore, ma studiata, conosciuta, quindi amata come ogni altro aspetto della manifestazione divina;
b) la materia è strumento conoscitivo indispensabile all’evoluzione dello spirito, tappa insostituibile come si è detto, in quanto rappresenta un altro da sé rispetto allo spirito che dunque va esperito al massimo livello partecipativo possibile allo scopo dí coglierne il senso.
Una diversità che diviene necessità di conoscenza e che per lo spirito rappresenta un vero e proprio salto nel buio, spesso una trappola estremamente riduttiva (in ciò può leggersi anche una motivazione al desiderio di ‘rinuncia’ alla materia in nome di una vita ‘spirituale’).
Da qui la necessità di incarnazioni plurime, per riuscire a trovare il difficile e sempre precario equilibrio tra la pulsione materiale-fagocitante che rischia di soffocare completamente l’impulso spirituale ed un autentico meccanismo di ‘fuga’ di origine spirituale che può portare ad una alienazione dal vissuto.
Non dobbiamo, quindi, vivere da spiriti sulla terra, bensì vivere spiritualmente la materia, viverla fino in fondo, senza dimenticare né la propria vera natura, né l’esistenza di finalità diverse da quelle meramente sociali ed istintuali.
In questa prospettiva il pensiero di A si rivela ancora una volta nella propria qualità di sintesi potentissima, in quanto in questa concezione della funzione dell’esperienza materiale troviamo l’unica logica giustificazione alle situazioni di profondo contrasto che noi tutti viviamo sulla terra.
La natura dello spirito
Lo spirito per A non è un concetto o un luogo filosofico, come l’Io fichtiano o lo Spirito di Hegel, ma una realtà, anzi per noi uomini — in quanto spiriti incarnati — l’unica realtà sostanziale ed eterna, non sottoposta, per sua propria natura, alla continua mutazione formale dell’esistenza materiale.
La nozione di un’anima immortale è presente nelle dottrine orientali come nella filosofia greca e nella tradizione giuridico-cristiana, ma la teorizzazione relativa alla struttura di quest’anima che più si avvicina al concetto di spirito sviluppato da A è quella della monade leibniziana.
In Leibniz la monade è ente eterno ed individuale, semplice ed inesteso, diverso da ogni altro per la propria qualità interiore che la contraddistingue: ogni monade è una finestra sul mondo, un punto di vista ermeneutico (singolo, irripetibile, sostanzialmente incomunicabile in quanto profonda essenza individuata) di percezione dell’Universo.
Per A lo spirito, scintilla divina, esiste per sempre e da sempre in Dio: in questo eterno senza interruzioni o punti di partenza o di arrivo, noi, dalla nostra limitatezza umanamente categoriale, non possiamo esimerci dall’affermare che esiste un ‘momento’ in cui lo spirito ‘nasce’, trapassa cioè dalla condizione di esistenza in Dio in quanto potenzialità, alla condizione di esistenza in Dio in quanto emanato.
Inizia così la storia infinita del proprio autoriconoscirnento che, socraticamente, è svelamento, riappropriazione di sé attraverso un rapporto conoscitivamente dialettico con l’Universo.
«Per lo spirito — dice A —, essendo egli potenzialmente infinito poiché proviene dalla matrice di Dio, l’accrescimento è un discoprimento interiore. Non è una introduzione dall’esterno all’interno dello spirito. Lo spirito discopre sempre in se stesso perché essendo la sua struttura divina, egli ha già tutto perché ha l’infinito dentro. Egli discopre se stesso, e l’esterno da sé rappresenta il momento dello stimolo, il momento del processo di moto dello spirito».
Lo spirito, in quanto promanato da Dio, partecipa della natura divina pur conservando la propria identità ed individualità; ciò vuol dire che egli porta in sé la conoscenza infinita, ma in potenza.
Quella stessa conoscenza infinita che per Dio è attuata ed assoluta, per lo spirito è relativamente infinita in quanto potenziale in attesa di essere attivato, di essere portato alla luce della consapevolezza.
Ed è attraverso l’esperire se stesso in relazione a questo universo che percepisce come altro (in quanto il sentimento della propria individualità non abbandona mai lo spirito poiché è fondamento della sua stessa continuità d’esistenza), attraverso l’esperienza dell’interazione ed interrelazione tra queste due realtà, rapportate alla certezza dell’esistere di un Dio che pur immediatamente negandosi è eternamente compresente come traccia ed esistenza, attraverso dunque questa dinamica, lo spirito continuamente riporta l’esperienza esterna al proprio serbatoio potenziale interno che, proporzionalmente al livello conoscitivo, si dischiude e svela in un riscontro interiore che è conoscenza di sé ed, attraverso sé, della matrice divina.
Dice A: Lo spirito è un esistenziale, cioè una realtà esistente che definisce in sé la propria qualità, cioè l’evoluzione, e la definisce in base ad una reale conoscenza che ha di sé e dell’universo. Una conoscenza che ha un carattere dinamico all’infinito, ma che è in qualche modo ferma a quel momento dell’esistenziale. Cioè lo spirito definisce se stesso in base a ciò che è, e non in base a ciò che potrebbe essere o a ciò che sarà, perché se lo spirito non avesse la dimensione del suo esistente, non avrebbe neppure una sua identità.
Evidentissimo qui il pieno accordo con lo schema esistenzialista.
Tornando al parallelo col pensiero leibniziano, ecco che ogni spirito è un diverso punto di vista dell’infinito, una delle infinite interpretazioni di quest’universo che, attraverso questo percorrimento conoscitivo trova la propria dimensione d’esistere, la propria autentica oggettivazione: si riecheggia, in senso più strutturale che profondo, l’esse est percipi di Berkley che, traslato però dal suo ambito ben più limitato, acquista nella grandiosa dimensione cosmica che A ci trasmette, un senso di reciprocità necessitante che in fondo non è altro che l’unità fondamentale dell’opera divina.
Si realizza a livello spirituale la conoscenza del noumeno che kant nega all’intelletto umano: la ‘cosa in se’ è per noi un fantasma irragiungibile, ma sarebbe stato davvero crudele (e soprattutto contraddittorio) un Dio che avesse lasciato supporre una possibilità di conoscenza per poi negarla per sempre.
Discesa nella carne: gli inferi della disperazione
Questa serena conoscenza, questa adamantina chiarezza, una volta incarnati si perde, ed è evidente in questa prospettiva il senso dell’oblio ontologico dell’uomo, funzionale ad una pienezza partecipativa al vissuto che certamente non sarebbe tale se ciascuno di noi conservasse la consapevolezza del proprio essere uno spirito eterno.
Da questo punto di vista è chiaro che l’uomo, esaminando la propria situazione alla luce di un raziocinio che non intende ottundersi in nome di un qualsivoglia dogma, non riesce a sottrarsi all’angoscia della certezza del proprio destino di morte, che stende un velo di tenebra anche sulle poche gioie che il vivere ci riserba.
Ecco la disperazione che, in un animo cattolico come quello di Kierkegaard, diventa macerazione quasi psicotica della situazione persecutoria del peccato, mentre nella prospettiva più stoica e volutamente distaccata dell’esistenzialismo, diventa non solo accettazione ma addirittura riappropriazione del proprio essere, anche se si tratta di un essere-per-la-morte.
In questa dimensione si staglia il pensiero di Heidegger, che letteralmente incarna la profonda contraddittorietà del vivere umano: la più grande mente metafisica del nostro tempo, il padre dell’ontologia moderna, egli stesso simbolo di quanto di più altamente spirituale è nell’uomo, avvinghiato come Kant dall’inalienabile evidenza del limite umano, afferma che a fondamento dell’essere è il nulla, poiché nient’altro che il nulla è la conclusione — ai nostri occhi — logica ed inevitabile del Dasein.
Pure le nuove scienze matematiche ci hanno mostrato l’inaffidabilità sostanziale del concetto di logica assoluta, in quanto possono esservi più logiche parallele, e più geometrie.
Dunque i livelli kantiani, il nulla dell’essere che non può essere altro che nulla, non possono assumersi altra stregua di evidenze assolute: si tratta di ipotesi, anche molto psicologizzate, quindi discutibili.
Non possiamo non osservare la profonda irrazionalità di fondo di una filosofia che affermi il sorgere dell’essere dal nulla.
C’è quì anche un certo compiacimento sul termine ‘nulla’: Parmenide affermava che il nulla non si può pensare, e se ci soffermiamo a riflettere che, nella totale pienezza dell’esistere, il nulla è comunque un esistente, ci renderemo conto quanto entri in gioco un residuo psicologico che viene innalzato a valenza filosofica, come è evidente in Sartre.
La domanda che va posta è la seguente: applicando alla propria personalità un procedimento analogo alla riduzione fenomenologica indicata da Husserl, sfrondandola cioè di quanto genetica ed ambiente hanno stratificato, si giunge al nulla degli esistenzialisti o allo spirito di A?
In questo punto troviamo il reale fondamento della dottrina di A. Essa, infatti, essendo strutturata sulla premessa dell’esistenza di Dio, si troverebbe, da un punto di vista strettamente filosofico, destituita di un fondamento dimostrabile.
In effetti la dottrina di A finisce col costituire la lunghissima esposizione dí una tesi che, nel momento in cui diviene un appello ad una nostra individuale operatività, finisce col costituire per noi una ipotesi di lavoro.
Ed è in questo passaggio che la dottrina di A trova fondamento e giustificazione, nel proporre a ciascuno di noi di entrare in rapporto dialettico con se stesso allo scopo di verificare in un intimamente indubitabile riscontro interiore la realtà di questa ipotesi.
Se dentro di noi, al fondo della nostra interiorità, al di là dei condizionamenti sociali, degli accidentali psicologismi, di un inconscio certamente più vasto di quello freudiano, incontreremo un luogo (non filosofico ma reale) dove la nostra nudità non coinciderà con una non-esistenza, ma con una qualche essenza certo diversa da quella dello specchio, dove comunque risuoni alta la voce della nostra identità, ecco che ciascuno di noi si troverà a costituire la giustificazione, il fondamento, la dimostrazione reale e vivente a questo punto non più o non solo delle parole di A ma della stessa esistenza di Dio.
DAINA DINI
L’Entità A ha sempre parlato di un Dio che non risponde alle rischieste dell’uomo. Che è inutile pregarlo, chiedere grazie, perchè egli non internviene nelle vicende umane. Ciò è in netto contrasto con la dottrina del Cristo che invece dice: <>.. Come si spiega questa divergenza ? Grazie
..e cosa dice il Cristo invece ?
Il Cristo dice: “Chiedete e vi sarà dato, bussate e vi sarà aperto, chiedete e abbiate fede di aver già ottenuto ciò che chiedete”
Il Maestro Andrea, sostiene invece che non bisogna chiedere o pregare, perchè le richieste non vengono ascoltate. Secondo Andrea gli unici interventi e aiuti, da parte di Dio, che vengono concessi sono proprio quelli che non abbiamo richiesto. Aiuti di cui solitamente non ci accorgiamo di aver ricevuto. Come si potrebbe spiegare questa, credo apparente, divergenza tra i due Maestri ? Grazie
Occorrerebbe una premessa piuttosto lunga , e per questa ci sono tante lezioni cui fare riferimento ,ma per restare strettamente nell’ambito del quesito si può dire quanto segue e cioè che nelle fasi evolutive inferiori, oppure quando lo Spirito è coinvolto da situazioni di tipo materiale (come l’incarnazione, come l’incrociare la materia) esso può essere posto in situazioni abnormi, nelle quali l’invocazione nasce dal desiderio di ordine, per cui essa è rivolta a Dio attraverso mediazioni varie. Ma tutto ciò indica un assoluto estraniamento dalla realtà, con tutte le crisi di debolezze e di inferiorità di cui è preda lo Spirito quando è coinvolto in situazioni abnormi di tipo materiale, ed è vero che in certi momenti lo Spirito chiede il cosiddetto aiuto.
Ma proprio perché si tratta di situazioni abnormi (e soprattutto di situazioni volute, desiderate, cercate addirittura, quelle programmate prima della incarnazione) non c’è risposta, perché ogni risposta è dentro di noi, “Bussate e vi sarà aperto”, ma bussare dove? A chi? La questione è che si bussa dentro di sé, perché ciò significa anche trovare quella famosa porta dalla quale entrare per ritrovarsi, dentro, perché tutto è dentro di noi; e il fuori di noi è comunque sempre dentro di noi. Nel momento in cui percepiamo capiamo il “fuori”, ciò che c’è intorno a noi, tutto ciò non è più “fuori”, ma diventa un “dentro di noi”.
Se ci si pone in questa serie di rapporti con gli altri, con le altre cose che sono fuori di noi, nasce la serenità, quel riappacificarsi con sé con gli altri. È allora, in quel momento che si capisce come Dio sia “un’altra Cosa”, ma, contemporaneamente, la stessa Cosa che è dentro di noi.
Grazie per la risposta, mi ha aperto un sentiero, grazie ancora.