CARLO ADRIANI “FILOSOFIA E RIVELAZIONE”

CARLO ADRIANI

Vice Presidente del Centro Italiano di Parapsicologia Umanistica

“FILOSOFIA E RIVELAZIONE”

Il nostro incontro, volto a festeggiare i cinquant’anni della media-nità di Corrado Piancastelli, nasce anche dall’esigenza di conoscerci e di riconoscerci per meglio portare avanti il compito di diffondere l’insegnamento dell’Entità “A”. Il CIP ha come fine statutario quello di riaffermare la necessità di riprendere il discorso sulle funzioni di quell’uomo interiore, che riemersero storicamente, con chiarezza abbacinante, proprio all’epoca dell’Illuminismo, per effetto di quel moto che dal mesmerismo e dal magnetismo animale portò alla scoperta della fenomenologia del sonnambulismo artificiale. Moto che proseguì con alterne vicende nell’Ottocento-Novecento, per sfociare, da un lato, nell’ipnotismo clinico, e di qui alla scoperta dell’inconscio freudiano e, dall’altro, con la scoperta della medianità, a Kardec e allo spiritismo. Questo doppio filone di studi, separatosi, prosegue attualmente con le nuove ricerche sull’inconscio cosiddetto cognitivo, sugli stati modificati di coscienza e la creatività e con la fondazione dapprima della metapsichica e poi della parapsicologia. Tuttavia è molto interessante dover constatare che proprio contemporaneamente all’affermarsi del positivismo, nel secolo scorso si sviluppò come da un corpo attaccato da una nuova patologia, il suo antidoto. Questo antidoto fu rappresentato da un’esplosione di eventi strani e straordinari. Di modo che, molti degli stessi protagonisti della vittoriosa avanzata della scienza, si trovarono coinvolti in quella che venne poi chiamata Ricerca Psichica. Una epidemia di tavoli giranti e poi parlanti si diffuse per il mondo occidentale in una maniera inusitata. Questo è un argomento poco conosciuto e del tutto trascurato dagli storici della temperie del secolo scorso. Non è stato fatto ancora un bilancio in sede storica di quanto abbia influito ed inciso lutto ciò nel contenere l’impeto travolgente del verbo della scienza nel suo trionfante dispiegarsi. Alcune conversioni fecero epoca; insigni premi Nobel per la fisica, si trovarono coinvolti in prima persona nel riconoscere e nel confermare l’esistenza di fenomeni che non erano in linea con le conoscenze che si ritenevano acquisite e certe. Tutto un insieme di fenomeni, apparentemente inspiegabili o non compresi nel paradigma scientifico dell’epoca, resero più cauti gli scienziati protagonisti della rivoluzione scientifica e li resero persuasi che esistevano ambiti inesplorati che violavano tutto ciò che si riteneva che il mondo dovesse essere. Ogni epoca storica sembra contenere un suo “sound” specifico, un suo aroma, una sua particolare atmosfera, e nel secolo scorso pullulò una schiera di straordinari personaggi, soprattutto medium a effetti fisici, che spinsero molti uomini di scienza ad occuparsi di quanto dal corpo sociale veniva affiorando. Tutto ciò contribuì a precisare sempre meglio una categoria gnoseologica per certi versi nuova: l’incon-scio. Intuita, ipotizzata da molti precursori, questa entità nuova fu propagandata magistralmente da Freud e dai suoi allievi. A proposito di Freud, vorrei porre in evidenza l’importanza che ebbe nella sua formazione medica il fatto di aver assistito agli esperimenti dell’ipnotizzatore Hansen e come a seguito di ciò si interessasse vivamente alla fenomenologia ipnotica, andando dapprima a frequentare la scuola di Charcot e poi quella di Bernheim e di Libeault a Nancy e come certe cognizioni da lui acquisite in questo campo siano state fondamentali nella scoperta dell’inconscio e nella fondazione e nello sviluppo della psicoanalisi. Ma con la scoperta dell’inconscio, l’io conscio, questa proprietà ovvia, apparve improvvisamente come una cosa estremamente precaria e periferica. La coscienza, quest’ altra realtà ovvia, apparve improvvisamente ignota, non esplorata, non conosciuta distintamente. Per effetto della stessa ricerca scientifica la nostra esperienza del mondo, mutava. Fino a quel momento – dirà Jung -: «La psiche era una tacita premessa che sembrava nota in ogni sua parte. Scoperta la possibilità di una sfera inconscia della psiche, ecco nata l’occasione per una grande avventura dello spirito, e ci si sarebbe potuto aspettare che questa possibilità attirasse su di sé un interesse appassionato. Com’è noto non solo le cose non andarono così, anzi si manifestò una resistenza generale contro questa ipotesi. Nessuno trasse la conclusione che, se effettivamente il soggetto del conoscere, cioè la psiche, possiede anche una sua forma di esistenza oscura, non immediatamente accessibile alla coscienza, ogni nostra conoscenza deve essere, in misura non determinabile, incompleta». (Jung. Vol. 8, p. 188). «L’anima, posta fino a quel momento dall’intelletto filosofico e provvista di tutti i poteri necessari, minacciava di risvegliarsi come cosa dalle caratteristiche inattese ed inesplorate.

Non rappresentava più ciò che è immediatamente conosciuto e no-to e di cui non restava che cercare definizioni più o meno soddisfacenti. Ora essa appariva invece in una strana doppia forma, come un che di perfettamente noto e al tempo stesso sconosciuto» (Jung. vol. 8; pp. 186-187).

Nel Novecento, lo stesso mondo fisico newtoniano, così scontato nella sua macroscopica prevedibilità, ridivenne un’entità che obbediva a leggi del tutto diverse da quelle note. Il mondo fisico era in realtà energia, ma null’altro si poteva ricavare da ciò. Tutto si sfarinava, tutto diventava una nebulosa pulviscolare. Lo stesso concetto di civiltà subiva colpi durissimi sotto l’implacabile critica demolitrice di Freud. L’orgoglioso uomo civilizzato nel “Disagio della civiltà” era vivisezionato e tratteggiato come un corpo codificato, socializzato, alienato dalle sue stesse pulsioni vitali. Due guerre mondiali devastarono l’Europa e venne distrutta la fi-ducia ingenua annunciata dall’Illuminismo. Abbiamo dovuto ricominciare tutto daccapo, confusi, disperati, increduli. Dio sembrava veramente morto. Kafka, Nietsche, Sartre, Camus. Il disagio di un’epoca, che se distruggeva vecchie illusioni o vecchie millenarie certezze, metteva però allo sbaraglio psicologico intere generazioni future. La relatività di Einstein, la fisica probabilistica, tutto diventava impalpabile, aleatorio, sfuggente, subentrava un panico sottile, pervadente. C’era bisogno di una parola chiara, chiarificatrice. C’era urgente bisogno di nuovi mediatori che sapessero parole e concetti nuovi, che cogliessero nella distruzione di una civiltà, i lineamenti di quella futura. Di questo dobbiamo essere infinitamente grati a Corrado Pianca-stelli, questo potente mediatore e all’Entità “A”. Ho voluto fare questa panoramica, per rammentare questa natura doppia, bicefala dell’uomo, che dovremmo sempre tenere presente alla nostra mente. Corrado Piancastelli ha scritto un libro dal titolo emble-matico: Il sorriso di Giano, mitico dio bifronte, alludendo proprio a questa doppia faccia che presenta l’uomo. Per quanto riguarda l’insegnamento dell’Entità “A”, che prevedo farà molto discutere di sé nel futuro, se saremo capaci di diffonderlo calandolo nella realtà attuale, va detto che la sua esposizione è di una chiarezza mai vista prima e che i concetti che esprime ci costringeranno a rivedere e a rimettere in discussione molte mezze verità nelle quali si è per troppo tempo supinamente creduto. Come parapsicologo, la cosa che maggiormente mi preme mettere in luce, e vedremo subito il perché, è che già nell’antichità, discutendo sull’origine della filosofia, alcuni autori la attribuivano a personaggi o a gruppi di individui particolari. Diogene Laerzio, nelle Vite di Filosofi, libro molto saccheggiato, ci fa sapere che: «Alcuni affermano che la ricerca filosofica abbia avuto origine dai barbari. Ed infatti Aristotele nel libro “Magico” e Sozione nel libro XXXIII della “Successione dei filosofi”, dicono che gli iniziatori furono i Magi presso i Persiani, i Caldei presso i Babilonesi, gli Assiri ed i Gimnosofisti presso gli Indiani, i cosiddetti Druidi e Scmnotei presso i Celti ed i Galli…Gli Egizi dal canto loro sostengono che sia stato Efesto, figlio del Nilo, a dare inizio alla filosofia, che fu in modo preminente coltivata dai sacerdoti e dai profeti…Ma questi dotti non si avvedono che attribuiscono ai barbari le nobili e perfette creazioni dei Greci, dai quali effettivamente ebbe origine …la filosofia». E poi, «Quelli che attribuiscono ai barbari la scoperta della filosofia, traggono in campo anche il tracio Orfeo, dicendo che fu filosofo ed antichissimo». La testimonianza polemica, ma tuttavia illuminante di Laerzio, ci fa comprendere, dai nomi che vengono citati, così ricchi di allusioni e di mistero, che sicuramente la ricerca filosofica prende le mosse da ri-velazioni avute da categorie iniziatiche che si servivano di stati di trance. Anche la citazione dei profeti egizi, è un buon dato a nostra disposizione. Oggi sappiamo che anche i Maya si servivano di soggetti medianici. Così gli ebrei coi loro nabi. Anche i Veda, antichissimi poemi indiani, devono la loro origine ai Rishi, i poeti-veggenti e, come dice Morretta: «si può affermare senza esitazione che l’intera civiltà e cultura indiane, sono all’ombra dei Rishi, il cui pensiero diede il tono e la misura dello spirito indiano, le sue mete spirituali e materiali«. (A. Morretta – “I veggenti dell’India” – ECIG (Edizioni culturali internazionali Genova) -1990). La singolare connessione tra gli studi neurologici e la linguistica, ci ha permesso di ricostruire una fase della storia del genere umano in cui si verificò l’avvento di un qualcosa di assolutamente nuovo che impresse alle civiltà allora esistenti, un’inattesa accelerazione. Si tratta di quella svolta che si sviluppò fra il VII ed il VI sec. a.C. In tale periodo, difatti, esplose un fenomeno grandioso in seno a tutte le civiltà superiori, dal bacino del Mediterraneo alla Cina.

Se prendiamo come punto di riferimento storico l’Illuminazione di Gautama Buddha, avvenuta probabilmente nella primavera del 523 a. C., vediamo apparire in Grecia, all’incirca nello stesso periodo di tempo, le grandi personalità di Pitagora da Samo di Eraclito di Efeso e di Parmenide di Elea; nel medesimo periodo insegnavano, in Cina, Confucio (551-479) e Lao Tze in Persia, l’«ultimo» Zarathustra, attorno al VII sec. a.C.. Questa presenza contemporanea di simili personaggi, testimoniano di un mutamento profondo che si stava verificando nelle coscienze di tutti gli uomini di quell’epoca. Questo fenomeno si collega intimamente con il manifestarsi dell’intelletto logico-discorsivo, che prevale sulla intelligenza intuitiva ed ispirativa dei secoli e dei millenni precedenti.

«…La filosofia….con Parmenide, ha trovato la sua strada: esplora un terreno nuovo, pone problemi che sono soltanto suoi». I filosofi si chiedono «…quale sia la natura dell’essere, del sapere, quali siano i loro rapporti. I Greci aggiungono così una nuova dimensione alla storia del pensiero umano. Per risolvere le difficoltà teoriche, le aporie, che i suoi stessi progressi facevano sorgere, la filosofia ha dovuto a poco a poco forgiarsi un linguaggio, elaborare i suoi concetti, edificare una logica, costruire la propria razionalità». ( J.P. Vernant – “Le origini del pensiero greco” – Editori Riuniti – 1984 – p. 110).

Questa funzione cerebrale, da alcuni studiosi collocata nell’emisfero sinistro, (che si presentò ormai matura nell’uomo nella forma di pensiero critico-logico), nel breve spazio di pochi secoli cominciò ad emanciparsi e a svincolarsi dal mondo magico e a farsi indipendente dalle tradizioni arcane e misteriche. Per cui, se le prime rivelazioni cosmogoniche, o della vita che prosegue dopo la morte, o dell’esistenza di un io occulto più antico del corpo e che ad esso sopravviverà, si sono avute quasi sicuramente o per via medianica o attraverso l’esperienza diretta del cosiddetto distacco del corpo di alcuni soggetti estatici, è però a partire dall’affermarsi del pensiero critico-logico che quel patrimonio di esperienze e di credenze, sottoposto al vaglio della ragione, darà origine a tutto l’edificio filosofico. Lo stesso Andrea dice che: «In fondo la filosofia è la stessa religione filtrata dalla ragione». Alcuni studiosi moderni, e cito per tutti il Dodds, grecista di Oxford, hanno portato avanti la tesi che nella filosofia di Platone è ben riconoscibile, nelle sue grandi linee, il complesso culturale sciamanico e che esso è alla base della sistemazione logico-critica data dal filosofo.

Secondo questo autore, in Platone: «La reincarnazione sopravvive immutata. La trance dello sciamano, cioè l’atto di volontà con cui egli distacca l’io occulto dal corpo, diviene ora una pratica di raccoglimento spirituale e di meditazione che purifica l’anima razionale, pratica che Platone, in realtà, fonda sull’autorità di un logos tradizionale; il sapere occulto che lo sciamano ottiene in stato di trance si trasforma in una visione della verità metafisica; il suo ricordo di passate esperienze terrene diviene quel ricordo di forme incorporee, che è posto alla base di una epistemologia nuova. Sul piano del mito, il lungo sonno dello sciamano ed il suo viaggio nell’oltretomba, forniscono un modello diretto alle esperienze di Er, figlio di Armenio. Infine si potrà intendere meglio il significato dei tanto discussi Custodi platonici, se riusciremo a vederli come una specie nuova di sciamani razionalizzati, preparati all’alto ufficio al pari dei loro predecessori primitivi, mediante una speciale disciplina intesa a modificarne l’intera struttura psichica; sottoposti come quelli, ad una consacrazione che preclude loro in larga misura le normali soddisfazioni della vita; costretti a rinnovare i contatti con le fonti più profonde della sapienza, mediante ritiri periodici saranno ricompensati di una condizione particolare nel mondo degli spiriti». (Dodds – “I Greci e l’irrazionale” pp. 247-249).

In conclusione, secondo Dodds, il magistero platonico «in effetti operò, nella tradizione del razionalismo greco, un fecondo innesto delle idee magico-religiose che hanno una remota origine nella civiltà sciamanistica settentrionale», e che «fosse proprio Platone, con originalità creativa, a trasportare definitivamente quelle idee dal piano della rivelazione a quello della discussione razionale». Io considero Platone un parapsicologo ante litteram, l’antesignano della parapsicologia: penso alla sua insuperata classificazione delle quattro “manie”, che oggi chiameremmo stati modificati di coscienza, cioè quella apollinea (L’oracolo di Delfo, la Pizia), quella telestetica o rituale (quella di Dioniso), quella delle Muse (l’arte), ed infine quella dell’Eros. E penso che dobbiamo a lui il primo studio su di un caso di morte apparente, quello di Er. Per rimarcare questa che considero la “divina” ispirazione e la vo-cazione di fondo della filosofia, vorrei anche ricordare che uno degli esponenti dell’ultima scuola platonica in Atene, Proclo, si riferiva con deferenza ad un testo denominato “Gli oracoli caldaici”, di cui non rimane quasi traccia e che gli stessi Padri della Chiesa tentarono di sistematizzare l’ispirazione evangelica ricorrendo agli esiti teorici raggiunti dalla speculazione dei filosofi ellenici.

Perciò, non dobbiamo assolutamente meravigliarci, se oggi, nel corso di una trance medianica del tutto eccezionale per la sua continuità e per la sua purezza, si sono ricevute costruzioni etico-filosofiche di alto valore e contenuto, che nell’impianto rivelatorio

rispettano e considerano le profonde mutazioni cerebrali dell’uomo. Il caso di Andrea rappresenta appunto la migliore dimostrazione di quanto affermo. Ed è difficile poter nutrire dubbi a questo riguardo. Stabilite queste relazioni e, venendo all’argomento specifico, posto che l’insegnamento di Andrea può essere analizzato e percorso senza doversi riferire ad alcun altro, perché si tratta di un sistema filosofico-teologico strutturato e completo, cioè autosussistente, mi sembra tuttavia opportuno inquadrarlo nell’ ambito della discussione filosofica, in modo da far risaltare meglio le soluzioni che lui ci ha offerto. Naturalmente mi riferirò fugacemente soprattutto a quei filosofi o anche filosofi della scienza o psicologi che mi sembrano avere più profonde affinità e maggiori punti di contatto con l’insegnamento di Andrea. Ciò anche allo scopo di dimostrare come il discorso da lui portato avanti da tanti anni, non faccia assolutamente parte di quella messaggistica di basso profilo spiritico che tanto impazza, ma come essa si innesti perfettamente e direttamente nella grande tradizione filosofica e come, pur senza mai riferirsi esplicitamente ad essa, Andrea riprenda il discorso lasciato incompiuto o a metà dai grandi pensatori che vissero sulla terra, integrandolo, perfezionandolo e completandolo.

Due sono le domande fondamentali che tutti noi continuiamo a porci. La prima: «Perché esiste qualcosa; perché esiste l’universo, invece che il nulla?». La seconda: «Chi sono io, e perché io, proprio io, esisto?».

Le due polarità emergono subito: da un lato, il mondo interno, dall’altro il mondo esterno.

Il primo aspetto che ci colpisce è dunque il mondo fisico che noi vediamo.

O, come avrebbero detto i Greci: «Perché esiste la fisis?».

Ed infatti, non a caso, l’indagine filosofica mosse i suoi primi passi dal mondo fisico, ed i primi filosofi, gli ilozoisti, individuarono in elementi fisici, cioè nell’acqua, nell’aria, nella terra e nel fuoco, i quattro elementi fondamentali, da cui scaturivano tutti gli altri. Solo successivamente, dovendo dare conto di altre qualità presenti unicamente nell’uomo, i ricercatori dovettero ampliare il quadro del discorso, sviluppandolo ulteriormente con altre categorie, di cui una parte costituì la psicologia, intesa come studio dell’anima. Infatti ci si accorse ben presto che l’orientamento squisitamente fisico non dava ragione anche dell’interno dell’uomo e di certe altre sue eminenti caratteristiche e, tra queste, innanzitutto il suo amore per il sapere e per la conoscenza, di qui la parola filo-sofia.

La natura si imponeva come un dato immediato che si manifestava come moto, movimento, fluire e nello stesso tempo rinviava ad un che di stabile e di fermo.

A seconda che si privilegiasse l’uno o l’altro aspetto, due scuole di pensiero si crearono intorno a questi poli. Con un formidabile processo di astrazione Parmenide pose l’essere come fondamento assoluto. Dando al verbo essere il senso proprio di ciò che veramente ed assolutamente è. Eraclito invece vide soprattutto nel divenire il problema centrale e fondamentale della ricerca filosofica. Un’altra scuola di pensiero, nel frattempo, rifiutando il processo di divisibilità all’infinito che, scomponendo sempre porterebbe ad un puro niente, suppose che vi fossero degli elementi minimi ed indivisibili di materia, appunto gli atomi. Questa scuola ad impronta naturalistica ridusse tutto ad atomi materiali che rimangono tali anche se non si possono percepire. Muovendosi nell’ambito della problematica dell’essere parmenideo, del divenire eraclideo e dell’atomismo democriteo, Aristotele affermò che ciò che costituisce il fondamento di un ente è la sostanza, cioè ciò che sta sotto e permane oltre la vicenda mutevole delle qualità e degli accidenti, o delle forme, cioè la consistenza del suo essere proprio. Argomentò che di fronte al cangiamento di un oggetto, esso se «sta perdendo una determinazione possiede pur qualcosa di quello che viene perduto, e qualcosa di ciò che si sta generando deve necessariamente esistere, e , in generale, se un oggetto sta corrompendosi, permarrà ancora qualcosa di esso che esiste, e se un oggetto si sta generando, deve necessariamente esistere ciò da cui esso proviene e da cui è generato, e tutto questo non può procedere all’infinito» ma è necessario «che il supremo termine della serie sia ingenerato, dal momento che la serie stessa deve fermarsi ed è impossibile che la generazione provenga dal non-essere» (p.72).

Ragion per cui «se non esiste nulla di eterno, è impossibile che ci sia anche la generazione», pertanto si può rimproverare a coloro che pensano che tutto cambi e che a causa di ciò non si può dire alcuna verità «il fatto che essi, … , hanno osato dichiarare che la faccenda sta nello stesso modo anche per l’intero universo».

Nel contempo, «se la materia per il solo fatto che essa è ingenerata doveva avere una sua esistenza separata — come supponevano i materialisti del tempo — ,è ancora molto più logico porre l’esistenza separata della sostanza». ( Metafisica).

Rispetto ai filosofi antichi noi oggi abbiamo il vantaggio incommensurabile di sapere che effettivamente la materia non esiste come materia; ma esiste come energia.

Ciò rappresenta un notevole passo avanti perché ci consente di avere un riferimento mentale, cioè il concetto di energia atomica o sub — atomica, che ci permette di approssimarci un po’ meglio all’intuizione dell’esistenza di altre forze retrostanti. «L’ energia, ovviamente, — osserva Andrea — però è pur sempre qualcosa e, dunque, la realtà, per esprimersi in questi termini, è una cosa esistente. Anzi il principio fondamentale della realtà è proprio il suo esistere, tanto che esistenza e realtà possono talvolta diventare sinonimi e si possono usare indifferentemente». Così Andrea con un passaggio fulmineo formula immediatamente il Principio dì realtà. Infatti: «Per materia, è chiaro, non intendiamo solo quella propriamente detta che stimola i sensi umani, ma la materia nella sua accezione più vasta, intesa come energia o sotto qualsiasi altra forma in qualche modo sottoposta a Leggi Costanti».

Dunque, il fondamento primo da cui partire è il fatto che esiste la realtà che esiste, intorno e dentro di noi, perché anche noi facciamo parte di questa realtà, e siamo testimoni di questo fatto. Si tratta di un punto di partenza obbligato e fondamentale per qualsiasi speculazione sulla natura profonda della realtà.

Subito dopo Andrea distingue nettamente l’esistenza dall’autocoscienza.

«L’ esistenza noi la teniamo distinta sull’autocoscienza. Diciamo che l’ autoriconoscimento è una frazione delle varie possibilità o attributi che solitamente diamo ad uno spirito quale unico esistente dell’ Universo che ha questa capacità di autodefinirsi. L’ esistenza è un “fenomeno” della realtà diffuso nell’ Universo e, dunque, nell’ infinito, al di là del suo autodefinirsi. L’esistenza è appunto l’esistere, l’ esserci, in pratica; (dunque l’esistere). Questo esistere non ha necessariamente come attributo il doversi riconoscere… Ecco perché noi allora attribuiamo all’ esistenza un valore comunque assoluto, ed è un valore assoluto per principio, perché oggettivamente, effettivamente, l’ esistenza è infinita ed è un dato di fatto, perché essa è la base del creato. Dio, fra i fondamentali attributi, ha quello dell’ esistenza. Se una cosa non esiste non è possibile costruire alcunchè che si diparta da essa, e questo è perfettamente logico sul piano filosofico-matematico».

Per farci capire meglio questa questione, Andrea dice: «Che significa questo in linguaggio più elementare? Facciamo l’esempio dell’uomo: voi avete lo stato di coscienza, voi conoscete, voi vi riconoscete, vi definite, vi muovete; durante il corso della vita stabilite rapporti con gli altri esseri; amate, odiate, siete intelligenti o siete sciocchi. Insomma, siete quello che siete, ma anche al più alto grado di questo autoriconoscimento o di questa autodefinizione, voi della natura o della struttura che consente tutto questo non sapete niente, o molto poco. Dunque, la vostra esistenza procede al di là o al di qua, secondo i punti di vista del vostro atto conoscitivo. Voi siete padroni di una parte di voi stessi al più alto grado possibile, dunque siete in grado di compiere le più sperimentali ideazioni, senza per questo conoscere nulla della “substantia” che consente questa ideazione al limite. Perché? Perché c’ è una differenza tra l’ autori conoscimento o l’autocoscienza e l’esistenza».

Naturalmente questo esempio vale solo come una metafora, tenuto conto che lo stato di coscienza dell’uomo non è identico a quello del suo spirito e che pur tuttavia anche questo «nel momento in cui effettua un processo conoscitivo di se stesso, non per questo riconosce 1′ esistenza, ma riconosce soltanto lo stato di coscienza che è connaturato alla struttura complessiva che si chiama “spirito” ».

Ciò vuol dire allora che l’esistenza è un principio che va solo riconosciuto e come infatti dicono molti pensatori «…l’esistenza non è un predicato logico, ma un dato di fatto non deducibile».

Ne consegue che il principio d’esistenza e il principio di realtà di cui è intessuto il tutto, noi compresi, ci pongono immediatamente di fronte ad un’ origine unica dell’Universo.

Ma non vi è dubbio che una parte dell’universo ha l’autocoscienza, ed allora «la differenza fondamentale che corre tra questi due universi — e dico due in maniera convenzionale — sta nella possibilità evolutiva della struttura individuale che ha lo spirito, il quale si evolve, ma subisce le leggi di trasformazione, diventando un’altra cosa.

Lo spirito, evolvendosi resta sempre individuato ed individuabile; l’autoriconoscimento, la coscienza del sé non si perde mai. Questa è l’unica fondamentale differenza che sta tra lo spirito e l’Universo dato. La vera fondamentale differenza sta proprio nel carattere individuale dello spirito, nella sua proprietà trasformativo-evolutivo, mentre in un certo senso l’Universo ha una proprietà commutativa, e cioè quella di diventare qualcos’altro.

A monte di tutto questo ritroviamo, naturalmente, questo Dio da cui si origina un’unità che si scinde per puro funzionamento e per rispecchiare ciò che vi era a monte. Anche Dio è costituito in siffatto modo; la sua costituzione, evidentemente, è molteplice, ma due aspetti fondamentali lo coinvolgono nell’Universo: il Principio di Identità, perché Dio è Dio ed è unico nel suo genere, ed il Principio di Realtà, perché Egli, essendo Dio, contemporaneamente è, cioè esiste.

L’Universo documenta l’aspetto proiettivo di Dio. Funzione attiva e passiva.

Ora, l’Universo sta proprio a documentare questo aspetto proiettivo di Dio, l’Universo è la realtà, e questa realtà non avendo la possibilità di una autofunzione, ecco che si scinde nella funzione autonoma che è quella propria che ha anche Dio: lo spirito; e, nella funzione per così dire passiva, il fatto semplicemente di essere; ed abbiamo l’Universo, in un certo senso passivo rispetto allo spirito…».

Come appare chiaro, Andrea riprende in mano i fili del discorso filosofico e ne indica dei possibili tracciati.

Esiste cioè un’energia universale primaria che si è differenziata nella funzione attiva ed in quella passiva.

Abbiamo anche detto che la materia obbedisce a leggi costanti. Ne consegue che, innanzitutto «nessuna cosa si distrugge; è una vecchia ed elementare affermazione fisica che significa anche conservazione intesa nel senso di eternità, perché se nessuna forza, nessun elemento si distrugge mai, pur trasformandosi, allora vuol dire che si conserva: questo è il principio di eternità valido in tutto l’universo». Allora, a maggior ragione, occorre ammettere che la Legge che organizza l’energia ha un proprio distinto statuto d’esistenza. «Non è la legge che scaturisce dalla presenza della realtà data, perché essa preesiste… Significa forse che esistono leggi nell’universo senza che vi siano forze corrispettive alle quali queste leggi vanno ad applicarsi? Sì, risponderò, secondo una visione un po’ teorica dell’universo, in pratica ciò non si verifica o può non verificarsi, ma la cosa non ci interessa molto… Però, pur convenendo sulla necessità della compresenza delle leggi e delle realtà corrispondenti ad esse, la priorità spetta comunque alle leggi…»

La Legge è immutabile e non ha una dinamica evolutiva.

«…Al di là dell’eternità dell’Universo c’è l’eternità dei Principi, vi è l’eternità delle Leggi e non è un modo di dire: la legge in sé non ha una dinamica evolutiva, la legge non è soggetta a trasformazioni, mai, neppure da voi sulla terra. Non essendo soggetta a trasformazione, la legge non è soggetta ad invecchiamento, a declassamento, a diminuzione di forza, a depauperamento della propria struttura, della propria dinamica. La legge non è soggetta a niente, essa è in certo senso immutabile. Sembra che essa si modifichi, ma unicamente perché essa può presentarsi associata ad altre leggi e dare quindi una risultante diversa; in realtà, l’analisi, direi, la scissione delle manifestazioni delle leggi, ci riportano ad altrettante leggi semplici le quali sono immutabili...». (Lezione dell’ 8-6-1970 pp. 1-2. Titolo: “Materia e principio di autosussistenza”).

Il tema qui sviluppato da Andrea sul principio di realtà e sull’indipendenza delle Leggi e dei Principi trova precise concordanze nei ragionamenti e nelle idee di alcuni fisici moderni. Paul Davies, in “La mente di Dio” (Ed. Arnoldo Mondadori —1993, pp.96-99), dice: «L’interrogativo che ci si presenta è se le leggi della fisica abbiano un’esistenza trascendente. Molti fisici lo credono.

Costoro parlano della “scoperta” delle leggi della fisica come se queste fossero già “là fuori” da qualche parte. Naturalmente, si ammette che quelle che oggi chiamiamo le leggi della fisica sono soltanto un’approssimazione congetturale ad un unico insieme di leggi “vere”, ma vi è la convinzione che col progredire della scienza queste approssimazioni miglioreranno sempre di più, con la prospettiva di ottenere, un giorno, l’insieme di leggi “corrette”. Quando ciò accadrà, la fisica teorica sarà completa. …Comunque non tutti i fisici teorici accettano con tanta disinvoltura l’idea di leggi trascendenti».

Ad ogni buon conto conclude Davics, «Se le leggi non sono trascendenti, si è costretti ad accettare come un fatto puro e semplice che l’universo semplicemente c’è, come un unico complesso, con tutti ì suoi vari aspetti descritti dalle leggi che esso incorpora. Ma con le leggi trascendenti si ottengono gli inizi di una spiegazione del perché l’ universo è così come è.

L’idea di leggi trascendenti della fisica è la controparte moderna del regno platonico delle forme perfette che agiscono come modelli per la costruzione dell’effimero mondo-ombra delle nostre percezioni…». (op. cit. p.106).

Dunque accanto e contestualmente al principio di realtà ed a quello dell’esistenza dobbiamo distinguere gli elementi o le sostanze che subiscono un processo di trasformazione nel senso di fusioni e miscelazioni continue con altri elementi e sostanze, e che a loro volta danno luogo ad altre formazioni di realtà; e quelle che dotate di autocoscienza ed intelligenza, sono immuni da tale processo, nel senso che si possono trasformare solo dentro di sé senza fuoriuscire mai da sé e senza mescolarsi mai con l’esterno. Questa seconda specie di enti o sostanze le chiamiamo spiriti.

E così arriviamo al secondo problema: «Chi sono io, perché io so di essere io, e perché esisto?».

Si tratta del processo di individuazione ovvero del problema dell’individualità.

«Si può parlare di una omogeneità dei soggetti — scrive Jung —nella misura in cui questi sono inconsci in alto grado, vale a dire non sono coscienti della loro diversità effettiva. Infatti, quanto meno un uomo è cosciente tanto più seguirà la norma generale del comportamento psichico. Ma quanto più diventa cosciente della sua individualità, tanto più emerge la sua diversità da altri soggetti, e tanto meno corrisponderà all’aspettativa generale. In questo caso è anche molto più difficile prevedere le sue reazioni. Ciò dipende dal fatto che una coscienza individuale è sempre più differenziata e più estesa. Ma quanto più la coscienza si estende, tanto più riconoscerà le differenze e si emanciperà dalla norma collettiva, giacche il grado di libertà empirica della sua volontà cresce in misura proporzionale all’ ampliamento della coscienza». ( Jung. Vol. 8 p. 180 ). E pertanto: «dobbiamo tenere rigorosamente separato il concetto di individuale da quello di persona perché quest’ultima può dissolversi completamente nel collettivo, mentre l’individuale non può mai dissolversi nel collettivo, né mai identificarsi con esso…. Dunque ci troviamo di fronte ad un nucleo individuale coperto dalla maschera personale» e conclude «la Persona rappresenta un ostacolo all’evoluzione dell’individuo. Quindi la dissoluzione della persona è una condizione indispensabile per l’individuazione…. Finchè la persona sussiste, l’individualità è rimossa e rivela la sua esistenza solo attraverso la scelta di accessori personali; potremmo dire dei suoi costumi teatrali».

E così Jung distingue l’individualità della personalità.

Viene così posta in primo piano la questione dell’individualità, che Jung ha ritrovato empiricamente analizzando ciò che costituiva l’essenzialità dei suoi pazienti.

Andrea porta il discorso ancora più in alto e, una volta distinta l’esistenza dell’attributo della autocoscienza che alcune sostanze particolari hanno, passa ad esaminare un carattere speciale di queste strutture, che vengono così a differenziarsi eternamente dall’universo. «L’individualità è il carattere unico, irripetibile, non trasmissibile dello spirito.

La struttura sostanziale è eterna, non muore mai, essa è anche immutabile, cioè non diminuisce e non si accresce; è quella che dall’eternità e per l’eternità; è stata così fatta da Dio e così resterà sempre.

Il carattere eterno dello spirito, dunque, è dato da questa struttura e non dalla personalità e cioè quella maniera in cui si comporta. Questa manifestazione dello spirito è mutevole in rapporto all’evoluzione, mentre la struttura in base alla quale l’essere potrà sempre affermare se stesso nell’eternità è l’individualità. Ma l’individualità non potrebbe manifestarsi in alcun modo se non possedesse una personalità che è la maniera con cui lo spirito si autointerpreta e si autodefinisce, la maniera con cui egli svolge un suo ruolo universale e riconosce in sé certi segni e li valuta… Lo spirito, come struttura, come realtà, è fatta da Dio in quel determinato modo; tutti gli spiriti sono uguali. Non esiste trasmissibilità: uno spirito non partorisce un altro spirito, l’emanazione proviene soltanto da Dio, quindi il carattere individuale è lì, eterno, ben circoscritto, ben definito e non c’è nulla che si possa togliere, modificare o aggiungere». (Lezione dell’8-3-1967 – Titolo: “Ancora su individualità e personalità”).

Con semplici passaggi Andrea è riuscito ad enunciare l’esistenza dei principi, l’esistenza delle leggi universali, il principio di esistenza, il principio di realtà, il principio di identità e di individualità, il carattere eterno cd infinito dell’Universo e delle manifestazioni divine, la loro autonomia voluta da Dio stesso — argomento questo importantissimo spesso sottovalutato o non valutato affatto — la libertà e l’intelligenza autonoma dello spirito, il principio evolutivo dello spirito e la personalità come aspetto dell’espressività spirituale relativa al suo momento evolutivo. Quindi alla domanda «Chi sono io e perché io so di essere io?», posso già rispondere che io sono partecipato da un’individualità profonda e che è in virtù di questa individualità profonda che posso cogliermi unitariamente ed è questo il motivo per cui io so di essere io.

Ma rimane insoluta ancora l’altra domanda. «Perché esisto?». Ovvero: «Se esisto come un provvisorio fenomeno vitale della natura, allora perché esisto come essere autocosciente in un corpo morituro?».

Abbiamo visto che l’esistenza della vita è un principio dell’universo e, come tale, può dare luogo a qualsiasi altro fenomeno vitale, quindi non posso avere alcun dubbio che come corpo fisico sono assolutamente assoggettato a questa legge, ma posso sostenere la stessa cosa anche per la mia autocoscienza e per la mia individualità che mi fa riconoscere come un io?

Ma, posto che questo io è un io bio-psico-mentale, una volta sparito il supporto fisico, è ragionevole pensare che sopravviverà in siffatto modo? Certamente no. Allora, anche supponendo che sia questa la parte che sopravviverà, sicuramente non si riconoscerà più al modo che conosco, e questo è il motivo per cui filosofi e psicologi preferiscono parlare di un sé, per meglio distinguerlo e non identificarlo con questo io bio-psico-mentale-sociale.

Già Bacone aveva segnalato che i nostri giudizi sono influenzati da quattro specie di deformazioni: gli idola tribus, specus, fori e theatri. Si trattava di veri e propri pregiudizi che impedivano la autentica osservazione della realtà. Aveva contestato e messo in discussione quel primato della contemplazione sull’azione, malinteso retaggio della concezione classica. Aveva detto: «Gli uomini devono sapere che in questo teatro della vita umana solo a Dio e agli angeli conviene di essere spettatori».

Lo stesso scenario di malessere, sia pure in un’altra situazione storica, è stato denunciato da Husserl che ha invocato il ritorno alle cose stesse, all’esperienza spontanea e schietta della fenomenicità dei vissuti, depurati da un’altra deformazione, quella veicolata da una visuale esclusivamente scientifica e fisicalista. «Noi sperimentiamo il pensiero soprattutto ed esclusivamente come quel pensiero che determina il nostro essere storico. — dice Heidegger — …solo penetrando sufficientemente nel nostro pensiero e nella sua essenza siamo in grado di riconoscere un altro pensiero come estraneo e di ascoltarlo come ciò che ci sorprende nella sua feconda estranietà».

«La civilizzazione, indubbiamente, — dice Andrea — ha “spostato” la presenza dello spirito, l’ha relegata più nel profondo. Nel contempo la civilizzazione non è stata soltanto di tipo sociale, ma anche di tipo cerebrale e vi è stata un’ evoluzione collegata alla cultura, quindi dell’ intelligenza, del raziocinio che, a sua volta, era fondato e si fonda ancora sul principio di spazio e tempo. Raziocinio, calcolo matematico, avanzamento dunque di scienze sempre più esatte, come la geometria, la filosofia, un certo tipo di filosofia. La cultura in pratica si è fondata sul tempo e sullo spazio. Allora la grande intuizione dell’esistenza dell’ infinito e dell’ eternità, lo spirito l’ha portata lui sulla terra». (Lezione del 21-10-1987 – Titolo: “Il concetto di infinito. La legge. Storicizzazione delle religioni”. CDA 1 — 1995 — p. 29). Un riecheggiamento di ciò lo troviamo ancora in Heidegger nella critica al concetto di pensiero unicamente inteso come pensiero tecno-scientifico.

«Il compito più autentico della filosofia è quello di lasciare che nel Grund (il fondamento) ovvero nella metafisica del fondamento e nella teoria moderna della conoscenza, parli l’essere… Il sentiero della ragione ci ha condotto fino al luogo in cui la ragione si è compiuta, in cui è finita, dando origine ad una diversa ragione… Riscrivere la soggettività significa anche preparare un altro “chi” dell’esercizio mediante e, infine, trovarsi di fronte ad un nuovo modo di pensare. Il terrore del profondo incute paura perché non possiamo esercitarvi le nostre categorie determinatrici… Allora percorrere il sentiero, fare il viaggio, significa abbandonarsi al destino invitante dell’essere e contemporaneamente ripensare il percorso… Il sentiero apre uno spazio di comunicazione fra pensiero e poesia, ma questa dimensione deve necessariamente essere avversata dal razionalismo, dal pensiero calcolante moderno, infatti: «poiché si è prigionieri del giudizio secolare che il pensare sia compito della ratio, cioè del calcolare inteso nel senso più lato, si è subito diffidenti quando si sente parlare di una vicinanza tra pensiero e poesia». (R. Cristin-“Heidegger e Leibniz” — “Il sentiero e la ragione”— Bompiani — 1990).

Allora non è questo io che conosco che sopravviverà, ma un’altra cosa, che sta dietro il mio io conscio ed inconscio, ed è il mio sé spirituale al quale sono in qualche modo collegato e che costituisce la mia radice profonda, il mio profondo, il mio fondamento.

Ma, mi chiedo ancora, quale scopo avrebbe questo mio sé spirituale a stabilire un contatto con un corpo, con quello che pure è il mio corpo? E poi, perché questa esistenza autonoma, fatta da Dio potenzialmente eterna ed infinita contatta una materia, infinita nel principio, ma finita nella sua organizzazione particolare? Evidentemente perché ha un suo progetto, e quale può essere questo suo progetto? Proprio quello di conoscere quanto questo mio corpo può dargli, fino a coinvolgersi con questa mia natura finita onde ricavare da essa quelle informazioni che diversamente non potrebbe sperimentare e quindi conoscere, se non si calasse fenomenicamente in quest’altro piano dell’esistenza, in quest’altra condizione così diversa dalla sua.

Questo, dice Andrea, è il principio conoscitivo che presiede all’incarnazione. Questo è il motivo fondamentale dell’esperienza della materialità, cosa che mai prima d’ora era stata enunciata con tanta chiarezza.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *