Colloquio 5

Colloquio 5

CREATO E CREATORE COME «CAMPI DI FORZA»

«Quando si parla di realtà universale, cioè di una realtà che sorpassa i limiti naturali della fisica dell’universo, per così dire, può essere usato il metodo matematico che in sè si può assimilare ad un metodo universale, cioè ad un procedimento logico; in questo procedimento il numero non ha più alcun valore perchè si passa ai simboli che con i loro contrassegni costituiscono una determinata realtà. Sicchè è matematico il procedimento, ma non la quantificazione.

Quando parliamo di applicazione matematica all’universo non intendiamo precisamente quella che molti dì voi conoscono, cioè la matematica scolastica, ma assumiamo una metodologia matematica che è portata sul piano del formalismo logico che di per sè è relativo in quanto, con la sostituzione dei simboli ad idee semplici ed a realtà autentiche dell’universo, si ottiene una certa configurazione della realtà.

I «grandi numeri» che voi potete incontrare, purtroppo restano per voi dei numeri che non hanno altro significato se non dì essere dei numeri, mentre è invece la metodologia insita nello sviluppo matematico che viene assunta e non più riconosciuta come una metodologia matematica, bensì come un piano di logica che è insito nella struttura stessa dello spirito. Voi, si capisce, dal vostro punto di vista avete trasferito tutto quanto nei numeri e nelle leggi della fisica. Ora, una parte di questo metodo può considerarsi abbastanza valido, ma poichè al di là del piano formale voi non incontrate più la materia propriamente detta e non incontrate più i rapporti e le leggi della materia, ecco che necessita superare anche il piano della logica di tipo matematico umano e penetrare in un altro aspetto in cui la realtà viene, si, misurata in qualche modo, ma si tratta di una misurazione che non è quella degli elementi normali dello spazio e del tempo, e che viene assunta quasi come una sorta di marchio, di una realtà in cui il dinamismo è una sovrastruttura e in cui i caratteri primari dell’universo rappresentano invece la struttura principale, quella veramente eterna ed immutabile nella quale il dinamismo attua la sua funzione vitale.

Alla base di tutto questo c’è il principio divino che abbiamo così definito e che è al di fuori di ogni schema di logica, di misura e di realtà conoscibili. Questo è uno dei punti più difficili ad intendersi, naturalmente, perchè nei rapporti fra la realtà e Dio si pone qualche volta la nozione di misura. Cioè è legittimo che lo spirito si chieda quale sia la distanza fra sè e Dio o, in qualche modo, a che cosa corrisponda il percorrere l’infinito. E la risposta è sempre quella che, rispetto a Dio non ci si allontana e non ci si avvicina, perchè la distanza è costante.

Tale distanza fissa chiarisce ulteriormente il valore di questo infinito che voi non riuscite a capire razionalmente perché vi muovete secondo misure condizionate, mentre l’autentica intuizione dell’infinitezza della realtà vi darebbe l’immediata coscienza del come e perchè ogni misurazione diventi inutile.

In qualche modo questo lo ritroviamo nei rapporti fra lo spirito e la realtà. È vero che la realtà viene assunta dallo spirito, ma essa viene assunta in modo atemporale, cioè non è una coscienza come l’intendete voi ìn senso culturale, ma nel senso di un accrescimento dall’interno dello spirito. Diciamo, e questo per voi sarà ancora più difficile assimilare, che lo spirito non è più grande in quanto sa di più: è, direi quasi, più spirito, è sempre più spirito, è un ordine di grandezza che non corrisponde ad una misura geometrica. Il possedere o meno una coscienza, nel senso culturale che voi date alla coscienza, può aver senso o non aver senso, è una sovrastruttura, ma lo spirito diventa realmente più grande, cioè più evoluto, perché è di più e non perché sappia di più; che poi sappia (anche) dì più diventa un formalismo, una conseguenza, ma non strettamente necessaria al tipo di discorso che pone lo spirito nei confronti di Dio. Cioè qui siamo proprio nell’ambivalenza di un rapporto dello spirito nei confronti della forza da cui si è originata tutta la realtà. Ebbene questo rapporto si pone in termini di rapporti di forza.

Se Dio ha carattere di infinito e si presuppone, dunque, che sia strutturato secondo un potenziale sconosciuto, ma comunque infinito, è chiaro che lo spirito deve porsi nei confronti di Dio come «campo di forza» non opposto, ma in ogni caso «riflesso». Cioè, io ho una determinata qualità di realtà (e lo sappiamo in base alla legge evolutiva, cioè d’interpretazione, di accrescimento, ecc.) però, alla fine, quando lo spirito attua questa misura nei confronti di Dio, si pone come una forza ben strutturata la quale si rapporta ad un’altra forza, quindi è in questo rapporto che va vista la soluzione o la chiave, diciamo, del confronto dello spirito in quanto forza e non in quanto qualità».

Ma la forza dello spirito non si basa sulla qualità…?

«Si, però questo non ha molta importanza. Questa è un’analisi se-condaria. Naturalmente è chiaro che lo spirito sia anche qualità però si pone anche come elemento «fisico», se vogliamo usare questa parola. Io esisto in quanto come spirito sono costituito da una forza che è una energia, una qualità, una realtà. È dunque questa l’energia di cui sono costituito in questo momento, e questa energia è oggettiva, non è soggettiva, è una delle tante forze che esistono nell’universo».

_______________________________________________L’energia di cui si parla è la qualità vivente dello spirito, allo stesso modo in cui l’elemento costituente un motore è necessariamente il metallo.

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Questo, come «essere».

«Diciamo come essere! Poi, essendo io uno spirito contrassegnato anche da altre forze, non agisco soltanto come una forza della natura (per esempio: l’energia solare o semplicemente come quella del seme che dà un fiore o la vita umana, cellulare), ma sono una forza che è in possesso anche di altre forze, e può anche dirsi che sono una forza strutturata in modo tale che, a questo punto, non posso non esprimermi come essere pensante: quindi confermo la mia origine dal cosmo come spirito, tuttavia mi esprimo sia come forza (che è il supporto in base al quale posso manifestare quello che è chiamato il «carattere intellettuale della forza»), sia come carattere intellettuale. Però, nel momento in cui io mi pongo di fronte ad un’altra forza che è quella di Dio, poiché con questa forza non posso comunicare, perché non esiste dialogo diretto tra lo spirito e Dio, mi pongo soltanto come forza rispetto ad un’altra forza perché non ho altre possibilità di confronto e non ho altre qualità da far valere. Dio a me non parla e non parla con nessuno, cioè Dio è muto come rapporto intellettuale, dialettica e di scambio semantico diretto, perché egli si muove attraverso la legge e noi lo «ricostruiamo» attraverso di essa; dunque io devo pormi nei suoi confronti soltanto come forza, altrimenti non posso neppure supporre un rapporto infinito. lo, il rapporto infinito, la distanza infinita tra me e Dio, la estrinseco soltanto da un rapporto tra «campi di forze». Perché? Perché sul piano puramente dialettico devo dire che io non so quanto Dio sia più grande di me, perché con questo Dio non ho la possibilità di instaurare una fase dialettica e di verifica; quindi la distanza la devo calcolare soltanto sui «campi di forze», ed è logico che debba essere così. Io non ho un interlocutore conforme, e non avendolo, non posso che trarre delle supposizioni; invece, dai rapporti tra puri campi di forze io posso già configurarmi le cose con maggiore approssimazione alla verità.

Allora, veramente, essendo il mio «campo di forza» potenzialmente infinito, ma finito nella sua strutturazione, io riesco a cogliere il campo di forza di Dio che è infinito in tutti e due i sensi; allora devo dedurre, proprio matematicamente, che la differenza fra me e Dio è infinita e che non c’è niente da fare; che, essendo infinita, ogni mio avvicinamento è puramente filosofico, se vogliamo, e non ha senso «pratico…»

Attraversando la realtà non sí attraversa anche Dio?

«Si, perché, naturalmente, noi assegniamo fondatamente a Dio una estensione infinita, quindi in qualunque modo agisca l’attività dello spirito o dell’universo, è sempre un «attraversamento» in Dio, questo è certo; anche se molte volte la modalità di questo rapporto non è precisa, è chiaro che, date certe premesse e definizioni su Dio, dev’essere così».

Ma d’altra parte, è proprio l’essere ciascuno di noi, momento per momento, una realtà precisa, che ciò rappresenta il marchio di Dio, momento per momento.

«Possiamo anche dire che Dio rivive se stesso attraverso lo spirito momento per momento, e che in questo c’è la funzione eterna della realtà di Dio, del «rivivere» nella sua stessa realtà. Ma questo è già molto lontano dalla vostra possibilità di immaginazione.».

Possiamo anche dire che la simultaneità infinita della Possibilità Assoluta si attua ogni momento anche negli spiriti, e che, quindi in questo c’è identificazione, c’è quasi coincidenza con la realtà unica di Dio.

«Si, però bisogna fare un distinguo e cioè che, mentre lo spirito si afferma e si riafferma continuamente, in Dio tutto questo è già dato.».

Qui torna, direi dalla finestra, quella idea-limite di soggettività che c’è nello spirito e che sarebbe poi l’unica distinzione, rispetto a Dio, nel campo di forze universali.

«Di distinzioni ce ne sono parecchie, veramente, non è solo questa, in ogni caso questa è una delle più vistose.».

Mentre Dio è perfetto, lo spirito pur tendendovi non raggiunge mai la perfezione.

«Già questa è un’affermazione provvisoria perché lo spirito, nel suo genere, in qualunque momento evolutivo è perfetto; a quel limite, intendiamoci. Lo spirito emerge per frazionamento del suo potenziale, e queste frazioni che appaiono via via alla coscienza, nel loro genere sono perfette. Noi, però, diciamo che sono «incomplete», perché i termini perfetto o imperfetto sono usati correntemente nel linguaggio umano, ma non sono precisi. Non si tratta di perfezioni o imperfezioni, si tratta di una maggiore o minore sufficienza, di precisione maggiore o minore. Ecco perché, escludendo i termini perfezione o imperfezione, noi eliminiamo anche le loro attribuzioni morali o moralistiche. Non si tratta, quindi, di immoralità, si tratta semmai di incompletezza, di un non preciso allineamento con la realtà; e questo fa scaturire una quantità di conseguenza.

Budda ha intuito di doversi limitare soltanto alla Legge, senza af-fermare, dichiarare, parlare di Dio…

«lo direi di più, e cioè che Budda ha intuito soprattutto che il pro-blema non era risolvibile, e l’aveva intuito spiritualmente come qualcosa che non è un problema, e che dunque Dio, va osservato in una condizione di meditazione o di contemplazione che esclude la logica, il raziocinio e la speculazione. Dio va semplicemente assunto, accettato, amato, contemplato. Invece, la fase speculativa e critica può porsi nei confronti della creazione, perché questa rappresenta la divinità manifesta.

Ma il principio in se stesso diventa indiscutibile. Si arriva a questa indiscutibilità, però, attraverso la razionalità, quindi non come illuminazione di Dio in modo irrazionale: tuttavia è attraverso la razionalità che si arriva all’irrazionale. Cos’è l’irrazionale? È proprio questo Dio che è irrazionale da tutti i punti di vista, se vogliamo, ma che si pre-senta comunque davanti a noi con la sua realtà inconfutabile. Irrazionale perché non è percorribile, irrazionale perché di fronte a lui falliscono tutti i metodi logici di approccio, irrazionale perché non si riesce a penetrarlo fino in fondo. Quando si giunge a questa maturata convinzione, sul riscontro di dati universali ben precisi, tuttavia a Dio egualmente non si può rinunziare perché la sua presenza ritorna comunque, cioè si sa che egli comunque c’è, ed ecco che viene allora accettato (benché resti lo sconosciuto per eccellenza).

Nel momento preciso in cui l’accettazione non è formale, ma è maturata, si riscontra che è questa accettazione che illumina tutta la struttura dello spirito e che la qualifica, come qualifica in senso ontologico tutta la realtà universale; è in quel momento che scatta quella che filosofi e mistici hanno definito «illuminazione», la piena consapevolezza, cosciente al di là del piano della ragione, o quella che molto più pedestremente viene chiamata «fede», (se è una fede vera, se cioè coincide con un amore autentico)»

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