CHE COSA VUOL DIRE MORIRE…

MORIRE

Nota redazionale

      Che cosa vuol dire morire…

    La discussione sulla morte è di solito seguita da rifiuti che sfiorano il ridicolo. Si tocca ferro, si cambia discorso, si entra nella paura. La letteratura sulla morte è vasta, essa da sempre ha impegnato i filosofi e i teologi, divisi tra speranza e fede, tra domande senza risposte e da risposte senza razionalità. La cultura è divisa e oggi, con lo sviluppo delle tecniche, ancora si affanna intorno ai temi dell’eutanasia e della libertà o meno di poter disporre del nostro corpo, se non alla nascita che non dipende da noi, almeno quando si dovrà morire, visto che il corpo è nostro. Ma anche parlare di proprietà del nostro corpo diventa un argomento difficile, perché si usa dire che solo Dio dispone del diritto di nascita e di morte. Parlare della morte è dunque sempre difficilissimo, anche per chi crede in un’altra vita perché, come intelligentemente aveva osservato Epicuro, quando c’è la morte non ci sei tu e quando ci sei tu non c’è la morte. Vuol dire che noi non possiamo parlare compiutamente della morte, perché è un’esperienza che, come viventi, non possiamo raccontare. E anche se torniamo per farlo, non ne abbiamo più il linguaggio. Possiamo parlare, invece, del morire, cioè degli eventi umani che circondano la morte, non della morte in sé. Pubblichiamo, qui di seguito, alcuni brani di riflessioni pubblicate nel 2010 da vari autori nel volume “Che cosa vuol dire morire”, (Ed. Einaudi), certi di fare cosa grata ai nostri soci e amici.

                                                                              Remo Bodei, filosofo

    Morire è la conclusione di un’esistenza. E’ un fatto naturale, ma dentro ci sono la cultura, la religione, la filosofia, il diritto, la morale. Quando la religione era potente, riusciva a orientare le persone rispetto all’attesa della morte. La morte arrivava come conclusione della parentesi breve dell’esistenza temporale, preludio dell’eternità. Dunque, che uno credesse in Dio oppure no, la vita di tutti era orientata in questo senso. Morire in peccato mortale era davvero un problema. Bisognava essere sempre pronti perché, come dice il Vangelo, la morte può arrivare “come il ladro nella notte”. La vita vera era la vita dopo la vita. E non c’era quella che il sociologo Norbert Elias ha chiamato la “solitudine del morente”, la solitudine, cioè, di chi muore in ospedale, in maniera asettica. Si moriva circondati da parenti e amici, era una cerimonia pubblica. Oggi invece non il sesso ma la morte è il vero osceno, come scrisse Geoffrey Gorer. Obscenus, cioè quello che sta fuori dalla scena, che si nasconde. Penso al fenomeno dell’abbellimento della morte […] e che negli Stati Uniti è diventato un tormentone: c’è un film, si chiama il caro estinto, in cui un defunto viene fatto sedere in poltrona, con il sigaro in mano, atteggiato come se fosse ancora in vita. E’ raccapricciante. […] Certo, bisogna essere disposti a credere in qualcosa, anche se non si può dimostrarlo. Aperti, ma non per paura. Si racconta che un giorno, mentre riceveva degli ospiti eruditi, un rabbino li stupì chiedendo loro a bruciapelo: “Dove abita Dio?” Quelli risero di lui: “Ma che vi prende? Il mondo non è forse pieno della sua gloria?” Ma il rabbi si diede da se stesso la risposta alla sua domanda: “Dio abita dove lo si lascia entrare!” E’ una storia bellissima, che mette in luce un aspetto della fede, anche nella sua drammaticità. Penso spesso a Bonhoeffer, morto in un campo di concentramento nazista, perché ha un’immagine di Dio che vorrebbe aiutarci ma non può. Si può qui ritrovare una linea del cristianesimo che parte dal san Paolo della Lettera ai Filippesi, in cui Dio si svuota della sua potenza (kenosis) e si presenta non come un Signore glorioso e onnipotente, ma come un Dio debole, disperato. Io mi commuovo sempre quando leggo nei Vangeli “Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato?” Non è tutto così glorioso c’è il dubbio, e la fede si alimenta anche di dubbi. Una delle accuse più devastanti alla presenza di Dio nel mondo è rappresentata dalle parole di Epicuro: se Dio non può togliere il male è impotente, se può e non vuole è malvagio, se non può e non vuole è malvagio e impotente.

                                                                     Emanuele Severino, filosofo

Cosa vuol dire per lei morire?

    Incominciamo a dire subito: la morte non è annientamento. Nell’eterno apparire del tutto, in cui l’uomo consiste, la morte è il passaggio da uno spettacolo dove gli eterni costituiscono ciò che chiamiamo vita, allo spettacolo degli eterni che oltrepassano l’alienazione del vivere. […l. Ma per la cultura dominante, che si sta imponendo anche in India, in Cina, in Oriente, la morte è annientamento, anche se le varie forme di tradizione puntano i piedi prima di farsi seppellire. Stiamo assistendo a un progressivo approfondimento dei criteri in base ai quali si dice che qualcuno è morto. Una volta bastava l’auscultazione dei battiti cardiaci, poi è intervenuto il criterio che si basa sull’encefalogramma. Sembra che neppure questo sia sufficiente. Dal punto di vista sociale, la scienza propone delle convenzioni: stabiliamo quando uno è morto e quindi facciamo quello che vogliamo del suo cadavere. E stabiliamo questo in base alla conoscenza di cui oggi disponiamo, fermo restando che non si possa escludere che la soglia del morire vada spostata in avanti e che domani possa essere dichiarato ancora vivo uno che ieri veniva dichiarato morto. Cosa significa “scomparire”?

Uscire dall’esperienza. Allora nella misura in cui si pensa che qualcosa morendo e annientandosi esce da essa, non possiamo chiedere all’esperienza che ne è di ciò che è uscito dall’esperienza. Quindi è per questo che dico che l’esperienza tace sulla sorte di ciò che non appare più. Il discorso che afferma l’eternità degli enti non smentisce nel modo più brutale, ingenuo, ciò che sta davanti agli occhi di tutti. Certo, c’è il cadavere. Ma la serie di eventi che costituiscono il corpo vivente prima che diventasse cadavere, quella serie, se è qualcosa che è diventato niente, è uscita dall’esperienza, ma se è uscita dall’esperienza, solo una teoria e non l’esperienza può dire che è diventata niente. L’esperienza fa prima vedere il giovane, poi l’uomo maturo, poi il vecchio, poi il cadavere. Fa vedere questa successione di eventi, ma non fa vedere l’opposto dell’affermazione che dice: tutti gli essenti, dai più alti e nobili ai più piccoli e miserabili, sono eterni.

                                                                       Giovanni Reale, filosofo

Cosa significa morire?

    I Greci, per la maggior parte la pensavano come un distacco dell’anima dal corpo e, quindi, come il passaggio dell’anima stessa a una vita nuova, libera dai mali, ultraterrena. Basta ricordare il grande messaggio che Platone fa dire a Socrate prima della morte: “Se io non credessi veramente di andare, innanzi tutto, presso altri Dei sapienti e buoni e, poi, presso uomini morti, migliori di quelli di qui, avrei torto di non rattristarmi della morte. Ma sappiate bene che io spero di andare presso uomini buoni, anche se questo non mi sentirei di sostenerlo con certezza” I cristiani hanno un pensiero che si differenzia notevolmente da quello dei Greci, perché credono ben più che all’immortalità dell’anima, alla resurrezione finale dell’uomo con il corpo. La spiegazione della morte si connette quindi strettamente con la “pasqua”, ossia con la resurrezione. Per capire bene questa differenza basta pensare al significato del termine “pasqua”. I Greci hanno connesso il termine con paschein che significa patire e hanno legato la pasqua con la passione. In ebraico, invece, pasqua significa “passaggio” come la liberazione attraverso la passione di Cristo (il sangue di Cristo simboleggiato dal rosso del nome del Mar Rosso) dalla schiavitù del peccato. Ecco, nel cristianesimo i due significati si legano strettamente tra di loro: quello della morte di Cristo nella passione e quello della sua resurrezione. E dunque la morte viene a essere un passaggio, attraverso un non-essere-più-ciò-che-si-era, a una nuova forma di essere. In modo esemplare ha espresso questo concetto in forma poetica — Karol Wojtyla. Conosco a memoria quei versi: “Mysterium pascale, Mistero del Passaggio in cui il cammino s’inverte Dalla vita passare alla morte È questa l’esperienza, l’evidenza. Attraverso la morte passare alla vita Questo è il mistero”.

                                             Daniela Monti, filosofa e giornalista.

Margherita Yourcenar, in chiusura delle Memorie di Adriano fa dire all’imperatore Adriano ormai anziano:”Cerchiamo di entrare nella morte a occhi aperti…” Una frase che condensa la migliore lezione degli antichi. Entrare nella morte a occhi aperti significa temerla, ma insieme essere preparati. Adriano sa di dover morire: “Le medicine non soccorrono più”. Così ha predisposto tutto : il mausoleo, in cui le sue ceneri verranno custodite, l’aquila incaricata di recare agli dei l’anima dell’imperatore, l’avvenire per i propri amici, che già piangono per lui. Adriano, “fino all’ultimo istante sarà stato amato d’amore umano”, scrive la Yourcenar. E’ anche questo amore che gli dà il coraggio di compiere l’ultimo passo: “Cerchi di entrare nella morte a occhi aperti…” E oggi?

    Zona Heat, medico inglese che per oltre venti anni ha lavorato con i malati terminali e da quell’esperienza ha imparato che “la morte ci dà la possibilità di dare compiutezza alla vita”, nel suo libro “Modi di morire” riporta il pensiero della romanziera Mary Wesley, in cui moltissimi si riconosceranno: “La mia famiglia ha la propensione — deve essere questione di geni — a morire sul colpo. Sei qui e un minuto dopo non ci sei più. Eccezionale. Prego di aver ereditato questo gene. Non ho nessuna voglia di tirarla per le lunghe, di diventare un fardello inchiodato a un letto. Uno shock brusco e fulmineo per i miei cari, ecco quel che desidero: più piacevole per loro, delizioso per me”. Morire sul colpo è il nuovo sogno, la fine che ciascuno augura a se stesso. Prepararsi non serve, la morte agognata è una passata di spugna, rapida e indolore: sei qui e un minuto dopo non ci sei più. Se tutti dobbiamo morire, la speranza è di farlo senza accorgersene. Più che una soluzione sembra una fuga. Siamo così impreparati di fronte alla morte che l’unica risposta che la nostra cultura iper-tecnologica sa offrirci è fingere che non esista. Ma è una scommessa: in pochi avranno la fortuna di varcare la porta a occhi chiusi, con passo leggero e svelto. E gli altri?

Costruire una nuova cultura della morte, che non sia dominio esclusivo della medicina né rimozione di un evento inevitabile, è l’unica strada possibile. Di più: è un compito di cui essere all’altezza. Per questo è necessario che la filosofia scenda in campo e faccia la sua parte.

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