IL PARADOSSO DELLA MORTE AI LIMITI DELL’IMMAGINARIO

Corrado Piancastelli

IL PARADOSSO DELLA MORTE AI LIMITI DELL’IMMAGINARIO

1- Tutti vorremmo essere circondati da persone, oggetti e cose che avessero il marchio dell’eternità. Vorremmo che nulla morisse mai, perché, come disse Freud, investiamo di energia libidica e affettiva tutte le cose del mondo, per cui qualsiasi perdita di oggetti o di persone, ci provoca un vuoto talmente assoluto e disperante da colpirci più acutamente di una frustata in piena faccia.

Ciò, si badi bene, non accade solo nei confronti della morte, ma anche se ci rubano l’automobile o vengono i ladri in casa.

Tuttavia solo la morte ha il carattere irreversibile che sappiamo e c’è un motivo meno inconscio e, in qualche modo, più razionale a giocare in questa disperazione un ruolo che è, fondamentalmente, di impotenza culturale oltre che psicologica e affettiva: non sopportiamo l’idea della morte perché mentre sulla percezione della vita disponiamo di tutte le informazioni ed esperienze possibili, oggettive e soggettive, coscienti e inconsce, tattili o solo teoriche (e dunque ciò costituisce la gamma positiva incontrovertibile dell’esperienza esistenziale e fisiologica della vita stessa), della morte come categoria esistenziale e soggettiva non sappiamo praticamente nulla.

Ovvero, per chi crede c’è tutto il «racconto» sull’esistenza «oltre» e c’è anche tutto l’armamentario delle dottrine religiose, profetiche, rivelatorie, spiritistiche e spiritualistiche o filosofiche che non mancano, come è noto, di fascino o attendibilità. Ma, qualunque sia il livello di conoscenza, manca all’essere umano l’equivalente di ciò che accade per la «vita»: cioè la coscienza esperenziale della morte.

Questa ignoranza, tuttavia, è attraversata dal più formidabile dei paradossi che la cultura umana abbia mai generato: tutti gli uomini muoino e non è mai accaduto il contrario e, quindi, teoricamente, sulla morte dovremmo sapere tutto. Invece la morte, sia come accadimento individuale che come visione concettuale del mondo, è l’unico fenomeno sotto gli occhi di tutti, sul quale sappiamo soltanto che rappresenta un’assenza di ciò che prima era esistente: e tutto ciò che sulla morte può raccontarsi – ulteriore paradosso fra i paradossi – è descritto dai viventi col linguaggio dei viventi.

Se si potesse ironizzare su un problema così serio, aggiungerei che finanche la costatazione di morte è una diagnosi per sottrazione. Il medico dichiarerà che il soggetto, ormai diventato già oggetto, è morto poichè sono assenti i requisiti per dichiararlo vivo.

Potremmo andare avanti, con queste considerazioni, per molte pagine, ma ci troveremmo sempre a dover concludere che la morte, come esperienza di viventi, non si può fare, nè la potremo mai descrivere restando vivi: è una constatazione di una paradossalità enorme, se si riflette immaginativamente su questa osservazione abbastanza comica, a ben pensarci.

Non si dovrebbero, comunque, sottovalutare queste cose quando i materialisti obbiettano le nostri tesi spiritualistiche. Occorre capire che non è facile accettare qualcosa che la coscienza umana non possiede esperienzialmente, cioè la conoscenza cosciente della morte.

Ne consegue che, sottratta al flusso dell’esperienza mentale, assente alla soggettività della coscienza, per noi la morte è quindi un evento veramente estraneo che ci coinvolge per la sua stupefacente e dolorosa ripetitività fissa e inesorabile, non per la sua razionalità. E, in qualche modo, è una esperienza indiretta che si costituisce soltanto attraverso la morte degli altri.

D’altronde, per la cultura laica e civile o si è vivi o si è morti: il problema della separazione fra Spirito e Materia è tutto qui. Ma, così come manca il dato oggettivo della continuità cosciente nel passaggio alla morte, non c’è alcun dubbio che possediamo la nostalgia dell’eternità e del ritorno: non c’è uomo al mondo, infatti, che non vorrebbe sopravvivere.

Ma si tratta solo di un desiderio? Oppure il desiderio è una pulsione annidata in un seme di qualcos’altro?

Ad esempio, perchè non potremmo interpretare il desiderio di sopravvivere come una pulsione o memoria dello Spirito momentaneamente dimenticata al momento della nascita?

Poco convincente appare, quindi, la tesi secondo la quale il bisogno di immortalità, cioè di sopravvivere alla propria morte, nasca nell’uomo dal momento in cui si sviluppa la neocorteccia, cioè nel momento in cui egli coscientemente capisce che lui e i suoi cari dovranno morire. Una fede in un certo senso antropologica (Acquaviva) che naturalmente può anche giocare un suo ruolo nella contrapposizione alla paura della morte, ma non sembra abbastanza esaustiva. Anzi sostenere che a favore di questa tesi la conferma verrebbe dal fatto che più le persone diventano vecchie e più crederebbero nella sopravvivenza, potrebbe anche essere letta al contrario: e cioè che più ci si avvicina alla morte e più torna la «memoria’, dello Spirito nei confronti della propria origine e natura. Lo stesso dicasi dell’accresciuta fede dopo un pericolo di morte o nel caso dei ritorni in vita dopo traumi cardiaci.

E’ comunque pacifico che solo intorno alla morte si svolge gran parte del vero dolore umano. Per gli uomini, come ho già detto, non ci sono mezze misure: o si è vivi o si è morti.

Il dolore del mondo è dunque il dolore della perdita totale e assoluta del soggetto d’amore. E quale è il più grande amore della nostra esistenza se non l’unica nostra vita che in questo momento possediamo? Il primo amore, la prima soggettualità amorosa, siamo noi stessi ed è inutile girarci intorno: a questa soggettualità amorosa possiamo legare solo i nostri figli perchè questi sono la propaggine naturale del nostro essere nel mondo: nulla di più, salvo ineffabili rarità o straordinarie congiunzioni esistenziali e parallele. E allora come non morire nel proprio cuore, quando il corpo del vivente, il corpo amato, il corpo usato, il corpo scambiato e innamorato, viene detronizzato nella carne e nella sola immagine che la cultura, la società e la coscienza umana sanno riconoscere: quella, cioè, del corpo?

Il fatto è che non siamo capaci di amare la persona come “significato». Non sappiamo amare i “sentimenti”, ma i comportamenti e le espressioni dei sentimenti. Abbiamo bisogno della presenza “fisica” dell’amore e dell’Altro e quindi cerchiamo le carte dell’identità e gli schizzi fotografici, le braccia e le gambe, le facce e i capelli, la voce e i gesti: ci necessitano fantasmi e rumori, presenze tangibili e segni umanizzati dell’uomo.

Sappiamo usare l’oleografia dei corpi e le proiezioni negli specchi finanche dell’immaginario, ma non sappiamo amare l’amore. D’altra parte non abbiamo mai posseduto una cultura dell’assenza perchè abbiamo adottato la fede quale risposta alla morte. Forse non si poteva fare di più nel passato, ma oggi speriamo di poter fare di meglio.

La morte non si può esorcizzare, intendiamoci. Non è possibile, umanamente, pensare di sconfiggere il dolore del mondo con le sole parole. E’ retorico e stupido immaginare che una perdita irreversibile di una persona veramente amata non traumatizzi i sentimenti dei sopravvissuti e possa essere lenita dal chiacchierarne degli amici e dei parenti.

La scienza così presente quando si tratta di negare l’esistenza dell’Anima e la stessa ricerca parapsicologica, è del tutto impotente a dare il minimo conforto al dolore della morte. «Oggi non abbiamo nessun meccanismo veramente efficace di rassicurazioni contro la morte. L’invito a prendere naturalmente coscienza senza una giustificazione religiosa o ideologica o filosofica è un nonsenso antropologico: siamo geneticamente programmati per averne paura (Acquaviva)».

Ma se imparassimo a conoscerla, se l’utopia della sopravvivenza diventasse una ipotesi di lavoro sufficientemente fondata o altamente probabile, non saremmo da questa nuova cultura della morte confortati più che da qualsiasi altra cosa?

Una inchiesta effettuata nel 1959 (Alexander e Adlerstein) in vari gruppi campioni, mise in luce che i non credenti non manifestano paura verso la morte. Però durante la ricerca, coinvolti dal problema, cominciarono ad evitare l’argomento in vari modi, per esempio bloccandolo, rimuovendolo, negandolo o reprimendolo. All’opposto, in un altra ricerca (Magni, 1971) fu evidenziato che coloro che possiedono una qualsiasi religiosità o appartengono ad un gruppo spiritualistico, hanno molto meno paura. La religiosità, la fede o la speranza, agiscono, insomma, positivamente e attenuano l’ansia di morte. Coloro, infine, che (come si vedrà in un successivo saggio) subiscono fenomeni di ritorno in vita o altri rischi di morte, mostrano di superare la paura in maniera anche totale e modificano finanche l’atteggiamento verso la vita senza necessariamente diventare distruttivi, ma spesso con nuove espressioni esistenziali.

La fede, tuttavia, è come la vita. O si possiede o non si possiede. E’ inutile discettare su questo punto.

La maggior parte degli uomini può dichiarare una fede, ma egualmente crollare, irreparabilmente, appena è colpita dal lutto. Non basta, quindi, avere una vaga fede: occorre che questa sia fondata e incardinata nella ragione e nei propri tratti esistenziali. E’ lo stesso discorso di prima. Se l’accadimento della morte non diventa uno stato di coscienza nel vivente, almeno come processo intuitivo del morire ora che siamo ancora vivi, non si potrà mai percepire la sua necessità e la sua esperenzialità.

Non si tratta di dover morire e ritornare, ma di creare la prefigurazione dell’esperienza e questo processo include il senso di appartenenza a noi stessi al di là del corpo. In altre parole, solo l’individuazione dei livelli interiori sposta colà l’attenzione sui segnali della morte, nel senso proprio dell’oltre, e ci comunica addirittura il valore della morte stessa laddove l’avvenimento era stato prima visto come un disvalore negativo.

Ormai coloro che hanno letto il mio libro «Il sorriso di Giano,» sanno bene che io realizzo l’attraversamento della zona di confine tra la vita e la morte proprio nel senso esperienziale per mezzo di uno stato modificato di coscienza volontariamente indotto. E dovrebbero anche aver capito che la conquista del valore esperenziale della morte si può acquistarla anche restando vivi, come appunto accade a me. Io non so come reagirò quando su di me calerà la morte vera (quella irreversibile di cui stiamo parlando) che mi porrà nella infelice condizione di non poterla raccontare; ma vorrei che le persone capissero che sicuramente non c’è vero conforto e comprensione al di là di noi stessi, qualsiasi direzione possano prendere la nostra forza o le nostre paure. Tuttavia questa radicalità nel credere solo a se stessi oggi non è più così assoluta. E’ infatti possibile sostenere vivacemente questo processo di crescita interiore con una serie di osservazioni oggettive il cui denominatore comune deve essere costituito dalla tensione operativa verso il seguente principio: l’individualizzazione della nostra Anima è la cosa più importante di tutta la vita, perchè senza Anima saremmo solo immondizia con un corpo a perdere.

Impadronirsi di questa convinzione significa anche entrare in un nuovo metodo di lavoro personale e dare un senso alla vita e alla morte.

Tuttavia il processo di cambiamento non può essere raccontato perchè fa parte di un viaggio personale da intraprendere apparentemente senza bussola, ma in realtà con molti accompagnatori, solo se si riescono a riconoscere. Riconoscere gli accompagnatori fa però già parte del viaggio.

E da qualche parte si comincia.

Per esempio dall’esperienza del mondo, dal dolore o dalla gioia, dall’incontro con un maestro, dalla bellezza della poesia, dalla mia o dalla tua voce, dal senso di me o dal senso di te, dalla disintegrazione della ragione, dalla voglia di darsi e non del trattenersi, dal saper ridere di se stessi, dall’osservazione e dalla pietà, dall’orgasmo del cervello: da qui ìn poi, ma anche da altri mille varchi, comincia il territorio dell’Anima.

Da questa linea di confine l’Anima è così vicina che quasi la possiamo toccare. Ma in questo territorio, è questo il segreto, si entra con una diversa vibrazione del corpo e con un’altra ragione: quella che, senza regole precostituite, ti da il brivido di un piacere sottopelle appena sfiorato con un alito: lo stesso delle lunghe unghie quando lentamente e subdolamente sfiorano i fianchi…

Naturalmente questa è la voce del poeta che travalica una frontiera e fin qui tutto può apparire soggettivo, come chiuso invisibilmente fra le valve.

2 – Ma, dicevo prima, questa volta il nostro Io cosciente, a contatto con l’interiorità personale spesso piuttosto evanescente se non è adeguatamente riconosciuta, non è solo. E’ vero che soltanto partendo dal raggiungimento della certezza di un esistente interiore noi possiamo costruire le nostre morali e ipotizzare i motivi per cui siamo al mondo. Ed è anche vero che raggiungendo questa certezza si supera il limite stesso della morte e il corollario della paura e del dolore.

Ma come arrivare a tanto? Con quattro supporti, mi pare, di cui uno è lo stesso nostro interrogarci, cioè il chiedere, in modo heideggeriano, alla nostra stessa Anima di venir fuori e raccontarsi al nostro Io psichico: chiedere, in altri termini, all’altra parte di noi stessi di rispondere alla domanda che interroga. Il secondo supporto è andare a verificare tutte le situazioni oggettive in cui si sospetta la presenza dell’Anima. Il terzo indicatore è la messa in parentesi di tutto ciò che viene raggiunto, nel senso di un dubbio operativo ogni volta che una tesi viene oggettivata nel campo del linguaggio, poichè il linguaggio è relativo agli uomini e noi non possediamo la chiave di lettura del linguaggio dell’Anima. Questa tesi del dubbio è di natura tecnicamente paradossale, ma funziona. E’ paradossale nel senso che la rimessa in problematizzazione di ogni discorso, cioè la rimessa in parentesi, ogni volta crea tensione operativa verso la soluzione. Quindi non si tratta di porre in essere il dubbio sistematico, ma il dubbio operativo che deve protenderci ad afferrare in maniera sempre più pregnante i piccoli lembi d’anima ogni volta che si protendono verso di noi. D’altra parte io posso intuitivamente raggiungere la mia Anima, ma di essa non posso parlare a voi se non attraverso una metafora linguistica o un metalinguaggio, che, in definitiva possono anche essere intesi come linguaggi inesistenti..

Il quarto supporto è il lavoro sui segni indiretti, come facciamo in radiologia. In un certo senso questo può apparire come un lavoro sugli scarti. Gli scarti sono le differenze, proprio in senso quantitativo, fra i fenomeni della materia e i surplus. Esempio: perchè un cervello costituito da atomi duri esprime gli optionals, cioè le contraddizioni a se stesso e le libertà.?

Bisognerà anche sciogliere il dubbio e le confusioni che io posso avere tra il corpo, la realtà che mi circonda e il mio Io. Dove cominciano e dove finiscono? Insomma bisognerebbe cominciare a lavorare nella comprensione delle differenze fra oggettivo e soggettivo, non solo per fissare la posizione del nostro sentirci in quanto Io, ma anche per capire il punto di divisione, ormai estremo, tra l’uomo e la sua scienza e fra l’Essere e il suo apparire.

Purtroppo il mondo dello Spirito è sempre stato espresso, in occidente, come qualcosa che ci appartiene ma ci viene dato e detto dall’esterno, per cui nessuno si è mai appropriato della propria Anima, finendo col trattarla retoricamente e senza sentimenti di appartenenza.

Ciò, naturalmente, è stato provocato dalla delega che ciascuno ha consegnato in bianco alle religioni le quali hanno finito col gestire il potere sulle Anime stesse, decidendo, nelle proprie culture, di perderle o salvarle. Di fatto, la spoliazione di ogni diritto da parte del singolo, proprio a causa della citata delega, ci ha separati dalla nostra interiorità col risultato che oggi della nostra Anima non sappiamo assolutamente nulla: ella ci è estranea, ormai straniera, ormai disusa a parlare finanche a se stessa

3 – Adesso, però, abbiamo un problema che viene imposto dalla cultura meccanicistica: di dover dimostrare che questa interiorità chiamata Anima, esiste veramente.

Ma è proprio in questa risposta o meglio, in questa sfida, che noi proponiamo un percorrimento rivoluzionario: a prescindere dall’onere della dimostrazione, l’al di là esiste, ma finchè siamo vivi è un al di là che passa inesorabilmente per l’al di qua. E’ questo lo spostamento di baricentro della nuova parapsicologia umanistica ed è uno spostamento che avvicina moltissimo sia l’esigenza dello spiritualismo che quello dello sperimentatore scientifico.

Da qui in poi devo ripetere necessariamente ciò che ho già scritto per il Congresso di Parapsicologia di Instanbul, e ciò che “‘ il corpo è la prima cassa di risonanza dello Spirito: ovviamente lavoriamo nel campo di una ipotesi di lavoro non di una certezza razionale. Lavorando su questa ipotesi, che però è suffragabile in più modi operativi, ne consegue che senza la mediazione del cervello, della mente e del lavoro di riconoscimento della nostra interiorità, non è possibile identificare i segni della nostra Anima.

La nuova parapsicologia (che fa capo alla Scuola di Parapsicologia Umanistica del CIP napoletano) quindi accorpa a sè il lavoro delle neuroscienze e della speculazione filosofica intorno al problema della coscienza e del rapporto mente-corpo, non nega assolutamente i fenomeni della parapsicologia classica, cioè quelli oggettivi, ma preferisce orientarsi su quelli legati alle percezioni e sub-percezioni interiori, enormemente più importanti e significativi per la cultura contemporanea.

In questo senso ci sentiamo protagonisti (proprio nel senso del protagonismo etico-politico) del cambiamento sociale, restando, per così dire, parapsicologi laici che danno un contributo all’umanesimo nel puro senso frommiano, cioè alla cultura della soggettività. messa da parte dalla rivoluzione scientifica.

Senza la cultura della soggettività, d’altra parte, non potremmo opporre nulla al corpo macchina di Newton, cioè alla trappola in cui è caduto il mito della Scienza: noi opponiamo con tutte le nostre forze con le parole di Wittgenstein che «il cervello non è abbastanza simile ad un essere umano».

Mi rendo perfettamente conto che le mie parole, peraltro proprio perchè collegabili alla particolare sensitività che mi porto dentro, rappresentano una svolta sostanziale perchè si esce dalla cerchiatura magica per entrare nella psicologia paranormale.

Ma è tempo che si strappino le bende che ci rendono spesso ciechi e spessissimo anche stupidi.

E certo è sorprendente la lezione di un Maestro spirituale, quale è questo mitico Andrea che si produce attraverso questo mio particolare stato di trance (1), che cí trasmette il raro coraggio di farci affermare che attualmente la coscienza risiede nel corpo, ma che se abbandoniamo l’uomo nelle mani del vivisezionista lo Spirito ha perso ogni speranza di essere riconosciuto. Sta parlando, Andrea, della coscienza quale noi la intendiamo nel senso psicologico: la sua impostazione ci impedisce, in siffatto modo, di entrare nell’insostenibile cultura dello spiritualismo banale che delega all’Anima funzioni che, ormai è sempre più chiaro, appartengono al cervello.

E non è altrettanto straordinario che la stessa direzione culturale di questa monografia, sia il risultato della lezione e dell’indirizzo proprio di questa misteriosa e straordinaria voce che viene letteralmente dal mistero, benchè affermi di appartenere (1) Vedere «Il caso dell’Entità A.» edito dal CIP (1990) è anche «Il sorriso di Giano» edizioni Mediterranee (1991).

ad un vero altro mondo, cioè di essere sopravvissuta alla morte?

Nel 1988 uscì, a mia cura, un libro intitolato «Proposte per una parapsicologia alternativa» in cui era discusso il metodo della nuova parapsicologia che veniva individuato nella fenomenologia, ma erano indicate anche le strade da percorrere per consolidare osservazioni che ormai sono costanti in tutto il mondo. Al libro collaborarono vari parapsicologi che firmarono il cosidetto «manifesto dei parapsicologi umanisti» (Adriani, Biondi, Daina Dini, Di Simone, Gradellini, Marabini, Morrone, Piancastelli, Ravaldini) per datare la nascita ufficiale del movimento. Il libro pose in luce la necessità di non perdere di vista l’esistenza perché senza una base fisica dei fenomeni noi smarriremmo la certezza dell’esistere: i segni paranormali, allo stato, possono essere decodificati solo col linguaggio umano, almenchè gli uomini non vengano addestrati — capacità ed evoluzione interiore permettendo — al linguaggio spirituale.

Basterebbe riflettere solo un istante su questo fondamentale caposaldo per capire tutta l’importanza, per una parapsicologia oltre che scientifica anche socio-filosofica, di evidenziare le basi neurologiche dell’Anima: non per legare questa ai neuroni, ma perché senza la rete neuronica noi saremmo impossibilitati finanche a percepirci. Senza i mediatori neuronica non potremmo, in altri termini, nè percepire la coscienza della nostra oggettività corporea, nè potremmo avere l’intuizione —al di fuori del linguaggio che possediamo — della nostra Anima.

Non tutti hanno doti medianiche, nè tutti sono profeti, sciamani e poeti. Vi sono persone di grande talento intellettuale che vorrebbero sperare su basi più congrue e più modernamente accettabili, benchè i «viaggi» interiori siano tutti contraddistinti dalla diversità rispetto alla norma e dal coinvolgimento dell’immaginario: il che è un grave limite, lo capisco, per lo studioso di formazione ortodossa. Ma le cose stanno così e non si possono cambiare per compiacere la scienza: e non significa che siano meno vere delle altre.

Le strade parallele, tuttavia, possono essere utilmente percorse e in esse si possono trovare indicatori dai quali spiccare viaggi che ora neppure si prefigurano, purchè si abbia l’umiltà di voler leggere, senza preconcetto, altre realtà del mondo.

Forse queste persone, nella fase iniziale del cammino parallelo non toccheranno il cielo con le mani, ma noi saremmo già soddisfatti se potessero solo sollevare gli occhi Se poi, offrendo un più attendibile panorama di opzioni, qualcuno, come Siddharta di Hesse, troverà in sè o da qualche altra parte il proprio maestro, allora vorrà dire che per noi, voi, queste parole, non si saranno esauriti inutilmente.

E così sarà anche per il nostro/vostro atteggiamento verso il dolore e verso la morte: voglio ancora e per sempre ricordare che ogni conforto e pace verrà soltanto se riusciremo a raggrumare nella coscienza il mondo interiore che vive in noi. Al di fuori di questo schema, nessuno, nè voce né fenomeno paranormale, potrà darci conforto. Come dice il Maestro che tutti noi conosciamo «nessun maestro suggerirà di tranquillizzarci, al massimo inciterà ad intraprendere il viaggio».

Sembra quindi che solo attraverso il lavoro personale si raggiungono i luoghi della pace e della vittoria sulla morte e per ottenere tutto questo sembra che si debba uscire dal nostro limitato schema cerebrale, come diceva don Juan a Castaneda; e far zittire la ragione, secondo le parole di Michel Foucault. Se un altro mondo esiste è regolato su un altro linguaggio e scandito da un altro spazio tempo . Sembra abbastanza inutile inseguire l’Essere con i limiti e le prassi del linguaggio e dei metodi delle scienze convenzionali, ma se i segni dell’Anima devono essere registrati o semplicemente riconosciuti (e ciò attiene al nostro doveroso appartenere a questo mondo), occorrerà necessariamente passare attaverso le basi fisiologiche della mente, cioè attraverso la rete neuronica che rappresenta il momento corporale della nostra coscienza di uomini. In tal modo la scienza e lo Spirito potranno celebrare il loro amplesso dopo i molti tentativi sul letto di Procuste: e nessuno cederà alle ortodossie dell’altro.

Alla fine la scienza non è creata dalla mente stessa? E che rapporto ha questa scienza con la stessa mente che l’ha creata? E ciò che scopriamo attraverso l’atteggiamento e la ricerca scientifica è veramente un mondo che è «fuori» della mente oppure stiamo sempre nella nostra stessa mente?

Ciò che conosciamo è una realtà esterna oppure è la conoscenza del nostro mondo interiore che solo dialetticamente contrapponiamo ad un mondo esteriore?

Il parapsicologo umanista rilancia rivoluzionariamente lo «straniero» dimenticato da tutti. Egli amplia il discorso dello psicologo umanista e afferma che lo scopo della vita è determinato dal progetto di un’Anima immortale che sostanzia di sè, col proprio segnale-presenza, qualche zona non nota del cervello da cui diparte la coscienza creativa superiore — e solo quella — che ci rende così simile agli “Dei'” appena ci solleviamo sulla punta dei piedi ed entriamo nell’immaginario: capacità, questa, che nessuna forma della natura possiede anche se dovessimo addestrarla per mille anni.

Corrado Piancastelli

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