LA MORTE ED IL POST-MORTEM

nascita e morte

    «Chi muore — dice Andrea — in realtà non soffre. La sofferenza, come ben sapete, in quanto noi l’abbiamo già detto, è semmai del corpo. Un corpo può soffrire perché una certa morte può essere dolorosa in senso biologico. Ma la morte, come dolore, non tocca lo Spirito, cioè non è il fenomeno della morte a dare dolore ma quello della malattia. La distinzione è importante, soprattutto tenendo conto, a comprova di ciò, di tanta gente che muore tranquillamente o muore, come voi dite, senza accorgersene, passando dal sonno alla morte.

    Morire così comprova che la morte, quando non segue ad un fatto fisico doloroso (cioè lo shock violento del dolore materiale), in sé non comporta alcun dolore. E non potrebbe comportarlo, un dolore, inquantoché la morte, da un punto di vista strettamente spirituale, è l’allontanamento dello Spirito e dell’Anima dal corpo» (RDX. pagg. 352-353).

    «La morte è un fenomeno talmente normale che è impensabile che la Legge di Dio possa consentire un turbamento in coloro che muoiono». Quasi tutti quelli che muoiono possono avere la percezione del tunnel (tante volte descritte nei casi di pre-morte per arresto cardiaco). «Essere risucchiati in questo tunnel, dice Andrea, assicura allo Spirito una importante funzione protettiva, nel senso che l’individuo viene sottratto alla paura ed all’angoscia della morte, perché perde il rapporto spazio-temporale con la realtà del mondo ed entra già in un’altra dimensione. Quando si muore si passa ad una condizione dolcissima in cui si abbandona totalmente la dimensione umana e si passa ad una situazione soggettiva (se posso dire cosi), in cui veramente non interessa più ciò che si sta lasciando; non interessano i propri cari, i propri amici, le proprie abitudini, le proprie cose più o meno grette legate alla sovrastruttura e si entra in una dimensione felice.

    Felice, ovviamente, non rende esattamente la percezione che si prova.

   Tuttavia si tratta di uno stato di chiarore, di fulgore, di abbandono, di desiderio di andare oltre, di proseguire in questa sorta di viaggio che si viene a determinare» (Raccolta Lezioni. 11/12/1992).

   Tutto ciò avviene negli istanti immediatamente successivi al momento in cui il cervello cessa la sua attività e si spegne, e «l’Essere veramente lascia il corpo ed è risucchiato, rapito da una dolcezza profondissima. La percezione del tunnel (ma altre possono essere le percezioni e non soltanto questa) è di breve durata. Dopo, è come se lo Spirito subisse un arresto. È un arresto in cui finisce la dimensione della luminosità, della spazialità, della temporalità e l’Essere si accorge che la corsa sta finendo, ma non si guarda indietro. Guarda al suo presente e cerca di guardare avanti. È il momento della rappresentatività della propria identità. L’Essere si riappropria della sua coscienza interiore. Non si guarda indietro. Ha perduto i rapporti col corpo e capisce, intuisce e si accorge di essere morto. Ma conserva la coscienza di essere stato in vita e può tornare sui suoi passi. Questa volta non attraversa il tunnel, ma ritorna verso il corpo» (Raccolta Lezioni. 11/12/1992).

    Prevedendo una possibile confusione è bene sapere che con la morte l’Anima non si separa dal corpo, almeno non subito. In genere lo Spirito perde la propria Anima quando ha completato il ciclo delle incarnazioni. Invece in queste varie fasi reincarnative, l’Anima subisce variazioni e mutamenti anche notevoli. In questa accezione, quindi, parliamo di Anima quale struttura metafisica che integra lo Spirito stesso.

    Ciò premesso, a questo punto «l’Anima è lucidamente consapevole di quello che avviene. Vede il suo corpo che è morto, se ne rende conto, sente l’ambiente che le è intorno, le sofferenze dei cari. Avverte dolore per queste sofferenze e questo fenomeno di attenzione, di veglia, dura uno o due giorni, qualche volta un po’ di più, qualche volta un po’ di meno» (RDX pag. 352-352). Naturalmente, «quanto più lo Spirito è evoluto meno si avvicina al corpo e più se ne allontana» (Raccolta Lezioni. 11/12/1992).

    Riguardo a questo aspetto, «vi sono Spiriti che «soffrono» per essere «morti», e ve ne sono altri, invece, che sono ben lieti di essersene andati» (CCA pag. 135).

    Dice Andrea: «Certo, poter morire vivendo coscientemente e bene la propria morte è una cosa molto bella ed intensa, ma occorrono una grande preparazione, una grande calma, un sistema nervoso equilibrato ed anche una grande fede.

    Per poter fare un’esperienza del genere si dovrebbe stare soli, perché la presenza dei propri cari guasta e rovina l’esperienza, nel senso che non si lascia l’individuo in condizioni di morire in pace. Ma per morire da soli, bisogna essere preparati, altrimenti il conforto serve molto» (CCA pagg. 135-136).

    Ma non possiamo prescindere dal fatto di essere uomini legati alla nostra natura corporale.

    «La morte è un fatto traumatico — riconosce Andrea — perché c’è la separazione dal corpo; vedere il proprio corpo in disfacimento può in taluni casi dare un trauma fortissimo e un grande dolore. Si può piangere sul proprio corpo e, certamente, «piange» sul proprio corpo più lo Spirito che i parenti sopravvissuti, anche se in una dimensione diversa. Il fatto di soffrire» del proprio corpo ormai perduto, naturalmente dipende dall’evoluzione, dalla maturità, dalla conoscenza che lo Spirito ha; tutti elementi che possono diminuire la drammaticità dell’evento e l’angoscia che tendenzialmente c’è» (RDX pagg. 352-353).

    Va comunque ribadito che la morte «per lo Spirito è come uscire da un’ubriacatura ed è un trauma anche se non ha i caratteri della sofferenza vera e propria» (CDA 6/1981 pag. 156), così come la concepiamo noi.

    «Vi sono Spiriti che, invece, seguono un po’ masochisticamente la distruzione del proprio corpo, proprio per curiosità. Ciò dipende da mille ragioni.

     Un motivo di conoscenza infatti può essere anche quello di osservare il proprio corpo ín disfacimento. Perché non si tratta di un corpo qualsiasi, ma di un corpo amato, del proprio corpo di cui si avverte il distacco e che non è più nostro, che è qualcos’altro, che è fuori di noi.

    C’è poi anche il caso della «fuga», non nel senso di uno Spirito evoluto che lascia il corpo e non se ne importa niente, ma di colui che fugge per evadere da un’angoscia che altrimenti diventerebbe più straziante.

    Ma, come tutte le fughe (specialmente per uno Spirito), esse peggiorano la situazione. Non si deve mai fuggire da niente, la fuga è sempre un atto di vigliaccheria che si paga.

    D’altra parte, però, tenete presente che il trauma, che stiamo descrivendo con colori così foschi, non è una sofferenza che dura a lungo, perché lo Spirito contemporaneamente vede la sua nuova vita da cui è attratto anche perché si tratta della sua vera vita.

    Poi cosa accade?

    L’Anima cade in una specie di sogno letargico, perde coscienza di sé, e si risveglia dopo un periodo la cui variabilità e lunghezza dipenderanno da molte circostanze che sarebbe lungo elencare. Questo «tempo» di sonno è proporzionato alla sua evoluzione spirituale. E perché c’è questo sonno?

    Questo sonno è necessario per diverse ragioni. Fra le principali vi è che l’Anima ha bisogno di questo sonno per liberarsi da una sorta di richiamo terreno, un richiamo che è forte non appena si muore. L’Anima, infatti, ha bisogno di non essere turbata dal dolore dei cari che sono rimasti in Terra. Quindi, durante questo sonno, si svolge un fenomeno singolarissimo: il cosiddetto trapassato «sogna» tutta la sua vita, cioè, in altri termini, si ripresenta in lui un po’ tutta la sequenza della sua esistenza e nella sua semincoscienza tutta particolare, lo Spirito — quando si risve-glierà — riavrà presente, in sé, le fondamentali azioni compiute e potrà, quindi fare un bilancio esatto del bene e del male, dell’utilità o inutilità della propria vita, vagliare insomma le singole attività, i singoli affetti, collegandoli al quadro generale della sua evoluzione.

    Questo sonno che tende appunto ad isolarlo, a lasciarlo solo, è un sonno impenetrabile.

   Cioè, nel momento in cui effettivamente l’Anima cade in questa sonnolenza o letargo, è in una posizione di privilegio. Non può comunicare con alcuno, né alcuno può comunicare con essa: è praticamente come un letargo animale assolutamente necessario.

    L’Anima ha quindi questa possibilità di riepilogo, di sintesi, di vaglio della sua vita e, alla fine, potrà fare il bilancio della propria esistenza appena finita. E perché questo?

    Perché, contrariamente a quanto si crede in Terra, il giudizio dello Spirito non lo dà Dio: non è Dio il giudice!

    Giudice dell’Anima è l’Anima stessa.

    Ognuno di voi, quando ritornerà Spirito, vaglierà da solo la propria esistenza, e non c’è possibilità che possa sbagliare: ecco la necessità del letargo che è automatico e non dipendente dalla volontà dello Spirito. Lo Spirito non può richiamare quello che gli fa comodo e mettere da parte ciò che non gli fa comodo.

    Il giudizio è un fenomeno spontaneo al quale l’Anima non può sottrarsi. Tuttavia l’Anima è in condizione di giudicarsi con assoluta equità e severità e può vagliare effettivamente quello che di giusto o di non giusto ha fatto: ciò che di utile ha fatto soprattutto rispetto al programma che scelse quando venne in Terra, dal momento che l’Anima decise da sola l’esperienza da svolgere.

    In questa fase l’Anima si accorgerà da sola degli errori compiuti e accorgendosene ne soffrirà e naturalmente vorrà cercare di sanare e di «espiare», per così dire, le infrazioni alla Legge compiute da vivente della Terra.

    Il letargo dura un periodo che, all’incirca, secondo il vostro tempo, è di tre o quattro mesi. Dopo, lo Spirito si risveglia come tale ed è completamente libero (cioè è completamente sveglio), e quindi può vagliare criticamente le responsabilità e le azioni che egli realizzò volontariamente nel corpo. Di questo è responsabile: ma delle azioni del corpo alle quali non potè fare opposizione, egli non è responsabile» (RDX pagg. 352-353).

    Nel post-mortem ha un’incidenza massima l’esperienza spirituale vissuta in Terra e il modo in cui la struttura spirituale del vivente si è manifestata e rapportata agli altri ed all’ambiente. Ciò che conta è il modo in cui l’individuo «è riuscito a trasformare nel corso della vita una serie di fatti in maturità reale, concreta e se, in base ad essa, ha modellato la propria vita in modo da creare nuovi rapporti dialettici con gli altri e con le cose… La maturità (come evoluzione) non ha bisogno di una cultura specifica. Ad una complessa od eletta cultura, anche specifica, non sempre segue un atteggiamento di vita conforme. La maggior parte degli esseri umani non ha una maturità associata ad una «cultura spirituale», per lo più ha una maturità relativa e non una cultura spirituale, oppure ha solo una certa cultura spirituale e non ha maturità». A causa di ciò si verifica che «la gran parte dei viventi giunge in questo stadio del post-mortem piuttosto sguarnita». Ma, come abbiamo già visto, «la presenza della struttura animica serve allora da protezione, perché il passaggio in una zona mentale e «temporale» completamente diversa, provocherebbe un «trauma» spirituale. La presenza dell’Anima garantisce che il passaggio avvenga nelle forme alle quali tutta la struttura è abituata, in modo che, pur nell’ambito di un trapasso, quindi di un cambiamento di stato, le condizioni non mutino troppo rapidamente e gravemente».

    Lo Spirito «ritrova se stesso gradatamente, non di colpo, e tutto dipende sempre dall’evoluzione che esso ha. L’ultima vita ha un’influenza massima, in questo periodo post-mortem, e ce l’ha minima la serie delle vite precedenti; cioè in quel «momento» l’evoluzione sostanziale dello Spirito ha una scarsa influenza, perché, benché possa essere grande, essa confluisce sempre e solo nell’ultima condizione dello Spirito, ed è «l’ultima» parte dello Spirito (quella attualizzata», se così si può dire) che riceve lo shock».

    In altri termini l’Anima ci garantisce l’unico autoriconoscimento a cui siamo stati abituati dalla vita, vale a dire il riconoscimento psicologico attraverso la nostra coscienza come la conosciamo. D’altra parte «l’evoluzione dello Spirito — prosegue il Maestro — è dovuta ad un processo di integrazione interiore, di fronte al quale l’autocoscienza dello Spirito è legata all’ultima incarnazione. È dunque «l’ultima parte» che si esprime con tutte le sue connotazioni e con tutti i riflessi in quel momento legati all’ultima incarnazione… Lo Spirito ritrova se stesso, ma anche questo ritrovare se stesso è graduale, non è immediato, salvo quei casi in cui ad una evoluzione abbastanza sviluppata dello Spirito segue la buona maturità dell’ultimo stadio di esistenza, cioè quello che praticamente si oggettivizza coscientemente e razionalmente come ultimo momento dell’essere. Allora, se l’ultima vita è stata matura e si è integrata nel rapporto con gli altri e con le cose, è chiaro che l’autoriconoscimento è veloce; perché lo Spirito si ritrova nel post-mortem in una situazione in cui l’ultima fase coincide con la sostanzialità dell’intera evoluzione del suo essere. Allora, ecco che tutti i momenti si congiungono e immediatamente l’essere si ritrova nella sua totalità e non ha quindi bisogno della compensazione, del ritrovamento; perché in pratica, esso si è già ritrovato nella vita umana, ed il post-mortem, non rappresenta altro che una base di automatico riconoscimento. Nella vita si è ritrovato, nel post-mortem si riconosce; allora il cerchio sì chiude e lo Spirito è quasi immediatamente libero, cioè affrancato da tutti quegli impedimenti già detti che, oltretutto, esistono come norma per sua difesa, per proteggerlo e per evitargli bruschi passaggi che «emotivamente» (in senso spirituale) lo traumatizzerebbero» (CDA 1/1983 pagg. 12-15).

    «Vi sono tanti esseri umani che non hanno alcuna occasione di incontri conoscitivi con l’altra vita, ma che svolgono in modo maturo la propria esistenza e che, naturalmente, dopo fruiscono, per così dire, di questo automatico riconoscimento». La conoscenza teorica dell’esistenza di una vita dopo la morte può comunque «servire soltanto da guida, ma non sostituisce mai il vissuto» (CDA 1/1983 pag. 15), ammonisce continuamente Andrea.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *