LOGICA DELL’INCARNAZIONE
Il tema dell’immortalità dello Spirito è stato sempre al centro della riflessione filosofica dell’Occidente. Che, a sua volta, col cristianesimo, si incardina e si diparte dalla figura del Cristo che riapparve vivo anche dopo la Crocifissione. Da questa testimonianza trae origine e fondamento tutta la cultura cristologica e quindi cristiana degli ultimi 2000 anni: da questa cultura la Teoria della Reincarnazione, però, è stata espiantata completamente.
Secondo quanto narra Erodoto nelle Storie (Libro 2° – 123 – p. 111 – Erodoto e Tucidite, Sansoni, 1967) «sono stati gli Egiziani i primi ad esporre questa teoria, che l’anima dell’uomo è immortale e che, dissoltosi il corpo, essa entra di volta in volta a nascere… Di questa teoria ci sono alcuni dei Greci che se ne servirono, gli uni prima, gli altri dopo, come se fosse loro propria. Di costoro io, pur conoscendone i nomi, non li scrivo.»
Da questo passo risulta chiaro che questa teoria era nota nel bacino del Mediterraneo, costituendo la base di non pochi movimenti iniziatici, ed era viva e presente nel cristianesimo primitivo.
La scoperta nel 1946, nell’Alto Egitto, di testi gnostici ad Hag Hammadi ci ha riportato al clima magmatico del cristianesimo delle origini.
Gli gnostici si richiamavano ad un insegnamento segreto dato da Gesù ai discepoli.
Interessanti testimonianze in questa direzione ci vengono fornite negli Atti degli Apostoli, da Luca, dove è detto che Gcsù: «dopo la sua passione si diede a vedere risorto, dandone ad essi (ai discepoli) numerose prove, coll’apparire loro per quaranta giorni, parlando di quanto riguarda il regno di Dio)» (La Sacra Bibbia, ed. Paoline, 1966, 1,3), ed allora «aprì lo loro mente, perché comprendessero le Scritture» (Vangelo, Luca, 22,36)
Poiché i Vangeli tacciono intorno a questi argomenti, non sapremo mai che cosa il Cristo abbia detto ai discepoli in questi 40 giorni, ma abbiamo sufficienti elementi di giudizio per ritenere che si sia parlato anche della Reincarnazione. È chiaro, comunque, che l’apparizione del Cristo, dopo la sua morte per crocifissione e la sua successiva prolungata permanenza tra i discepoli, sia stato un fenomeno assolutamente nuovo nell’imponenza della sua manifestazione.
Certamente fu un evento che nella sua grandezza servì, appunto, a convincerli definitivamente della esistenza della vita dopo la morte e consentì loro di affermare e diffondere al cospetto del mondo l’immortalità dello Spirito, con la sicurezza e l’autorità che proviene dalla realtà vissuta.
Una buona parte degli scrittori cristiani antichi insiste volentieri su questo periodo per la formazione degli Apostoli. Secondo Ireneo (Adversus Haereses — 2° sec. d.C.) «il Salvatore è rimasto 18 mesi a parlare coi discepoli».
Anche nella «Lettera degli Apostoli» (Vangeli Apocrifi) è detto che Gesù soltanto dopo la Resurrezione ha manifestato ogni cosa ai discepoli.
Naturalmente questi dati costituiscono per il parapsicologo, al di là dell’emotività che la religione può determinare, ulteriori conferme di una fenomenologia complessa su cui si è steso un velo di silenzio, ma che è inconfutabilmente presente nei Vangeli.
A tal proposito, lo stesso S. Paolo nella lettera ai Corinzi, elencando i doni spirituali dice che: «A certe persone lo spirito conferisce la capacità di guarire gli ammalati, ad altre quella di operare miracoli, ad altre di compiere profezie, ad altre di penetrare nel mondo degli spiriti.»
Come si vede, S. Paolo sa bene che questa possibilità esiste e non la esclude, ma prevede appunto che essa sia un dono che alcuni uomini possono avere.
A parte ciò, la stessa suddivisione paolina degli uomini in ilici, psichici e pneumatici che, presa a sè non ha alcun particolare significato, ne acquista tutto un altro se riferita al contesto più ampio della teoria della reincarnazione che essa sottintende.
A ben riflettere, questa tripartizione, che richiama alla mente le tre anime di Platone, è una implicita ammissione dell’esistenza di posizioni evolutive e di situazioni incarnative differenziate.
Lo stesso Cristo, in due noti episodi dei Vangeli, accenna alla dottrina della reincarnazione ed anzi in uno di essi fa addirittura un chiaro riferimento all’esistenza dei programmi incarnativi; l’episodio è quello del nato cieco che è tale non per tare ereditarie, nè per espiare qualche colpa, chiara allusione alla reincarnazione da parte dei discepoli, che interrogavano il Cristo per sapere da lui quale delle due fosse la causa della cecità, ma perché, come si sentirono rispondere: «si manifestino in lui le opere del Signore» (S. Giovanni, ibi-dem, p. 1141, 9 2-3), cioè proprio perché fosse sanato da Gesù.
Fino a che punto il Cristo fosse consapevole della rincarnazione e dei cicli evolutivi è dimostrato dalla famosa implorazione: «Padre, perdona loro, perché non sanno ciò che fanno. (Luca, ibidem, p. 1127).
Dove alla luce della dottrina della reincarnazione diventa trasparente e chiaro quanto profondamente egli aderisse alla legge reincarnativa, ben sapendo che quelli che lo crocifiggevano, erano solo agli inizi del loro percorso conoscitivo e incarnativo. Ma è dal fortunato ritrovamento dei manoscritti gnostici di Nag Hammadi, che cominciamo ad avere interessanti informazioni intorno all’insegnamento della dottrina della reincarnazione o della reincorporazione, già impartito dal Cristo ai suoi discepoli, ma ulteriormente precisato.
In un testo, la cui scoperta precede di molto i manoscritti ritrovati e che va sotto il nome di «Pistis Sophia» e che con grande probabilità faceva parte di una raccolta di libri gnostici, è detto: «Dopo che Gesù risorse dai morti trascorse undici anni coi suoi discepoli durante i quali si intrattenne con essi istruendoli», ed in uno di quei colloqui che teneva con essi, e che in questo testo vengono riportati, apprendiamo che il Cristo avrebbe detto: «Tuttavia se uno pecca due, tre volte, sarà rinviato indietro al mondo, secondo il genere di peccati commessi» (Testi Gnostici, Utet, 1982, p. 666), e più avanti rispondendo a.Maria: “Se un uomo… che ha terminato il suo numero di cicli nelle trasformazioni del corpo... (ibidem, p. 703). Queste espressioni così esplicite e ripetute indicherebbero quale fosse il tenore ed il tipo di insegnamento segreto tenuto dal Cristo ai discepoli.
Come si vede il Cristo parla di cicli incarnativi e queste affermazioni avvalorano e comprovano quanto abbiamo sostenuto prima.
Com’è noto, diversi Concili della Chiesa presero posizione contro la dottrina della preesistenza dell’anima e, quindi, della Reincarnazione, fino a quando nel 553 d.C., il 5° Concilio Ecumenico (Secondo Concilio di Costantinopoli) la condannò con queste parole: »Chiunque sostenesse la mitica presentazione della preesistenza dell’anima e la conseguente stravagante opinione del suo ritorno sarebbe Anatema»
Questa condanna e le successive persecuzioni estinsero il movimento gnostico e la dottrina della reincarnazione fu eli-minata dal corpo dottrinario della Chiesa.
E’chiaro che motivi di controllo politico e religioso deter-minarono quella scelta così carica di effetti, con la conseguenza di impedire per duemila anni lo sviluppo della speculazione filosofica su questo tema, costringendo le più acute menti filosofiche ad impantanarsi nelle insormontabili difficoltà teoriche, dottrinarie e teologiche che questa condanna comportava. Se pensiamo che Pitagora e poi Platone, per citare solo i massimi, con le loro investigazioni erano pervenuti a questa soluzione, comprendendo quanto fosse giusta e corretta la teoria della preesistenza dell’anima e della reincarnazione, ci rendiamo conto quanto abbia pesato questo pregiudizio sulla cultura dell’Occidente.
Ma, come la rivoluzione galileiana ha mandato in frantumi lo specchio incantato, il sortilegio aristotelico-scolastico che aveva paralizzato la ricerca scientifica, così sarà necessario produrre la crisi e la rottura del blocco mentale e psicologico che si è prodotto a causa dell’errata interpretazione sostenuta dall’ortodossia cattolica, secondo la quale Dio creerebbe ogni volta l’anima che si incarna.
Il fatto è che per un meccanismo di riporto automatico, questo dogma viene inconsciamente assunto e perpetuato anche dalle scuole filosofiche, malgrado la Monadologia di Leibinìz e, più in generale, dalla cultura occidentale.
A parte l’Occidente, la teoria della reincarnazione vive tuttora radicata profondamente nella cultura e nella prassi di vita dell’India e di molta parte dell’Oriente, influenzandone tutta la concezione del mondo.
Come si sa, la reincarnazione postula non solo che lo spirito é immortale, ma anche che esso subisce un ciclo di diverse incarnazioni in corpi diversi, in tempi diversi.
Suo necessario corollario è la legge di causa-effetto, altrimenti detta legge del Karma, in virtù della quale i comportamenti nel corso della vita in Terra, determinano le successive esperienze incarnative.
L’entità «A. conferma la teoria dell’immortalità dello Spirito, e la teoria della reincarnazione, ma innova profondamente la concezione meccanicistica della legge del Karma e, in ragione di un Principio evolutivo dello Spirito, la riconduce ad una teoria della conoscenza.
Il termine conoscere ha due valenze: con uno si indica ciò che è frutto di esperienza e con l’altro si indica l’operazione con la quale si astrae qualcosa dalla realtà concreta. Per quanto riguarda l’aspetto espiativo karmieo dell’incarnazione si tratta evidentemente di un conoscere, di uno sperimentare direttamente su di sé certe situazioni della vita, cioè conoscere nell’accezione di frutto di esperienza.
La comprensione profonda di ciò che si sta vivendo è ciò che estingue il Karma: quindi si dovrebbe parlare non di espiazione, ma di una realtà che si vuole comprendere per esperienza diretta. Sicché i cicli incarnativi rappresentano per lo Spirito, ini-zialmente, un’esplorazione di un certo piano di realtà, quasi un andare a tentoni, per poi conseguire una sempre più perfetta e matura conoscenza di quella realtà (nella fattispecie la materia), fino a raggiungere quel livello di padronanza che gli consentirà di esprimere all’interno di essa un’attività corrispondente all’evoluzione raggiunta, con tutti gli affievolamenti e le alternanze che può subire per effetto dell’incarnazione.
Dunque una conoscenza che avviene per tappe e che si sviluppa progressivamente.
Dunque una visione di livelli evolutivi differenziati da rag-giungere successivamente.
Ne viene fuori uno Spirito che esperimenta i vari piani di realtà con cui entra in contatto e dai quali trae gli stimoli per ulteriori avanzamenti ed approfondimenti.
Quindi uno Spirito che esplora, indaga, elabora, valuta, progetta, attua, esperimenta, assimila e discopre ciò che è già in sè; dunque un elemento attivo che penetra intelligentemente nell’Universo che lo circonda per sperimentarlo, conoscerlo e riconoscere (attraverso questo lavoro) sempre meglio se stesso. Dunque uno Spirito ben diverso da quello immobile, contemplativo e contemplante, paralizzato e catatonico della Tradizione, ma un elemento dinamico, intelligentemente dinamico, che interpreta l’Universo e si pone dialetticamente in esso: il che, ovviamente, non esclude che vi siano anche i momenti meditativi. Ed ecco il primo ribalta-mento sostanziale, estremamente rivoluzionario poiché:
A) L’incarnazione è strumentale allo sviluppo conoscitivo ed evolutivo dello Spirito;
B) La vita dell’uomo è finalizzata all’attuazione di una esperienza che lo trascende.
Perciò, quel tipo di organizzazione energetica, che chiamiamo materia (e che obbedisce a quell’insieme di leggi universali che la fanno essere così com’è attualmente) è semplicemente una palestra o un laboratorio di ricerca e di conoscenza per lo Spirito.
Sicché lo scopo fondamentale dell’incarnazione dello Spirito è quello di entrare in contatto più direttamente con la materia e penetrare in essa. E per farlo si inserisce in quella struttura che più di altre ha raggiunto una sua completezza di funzioni, vale a dire l’uomo come specie biologica, onde ottenere e trarre attraverso di esso una serie abbastanza completa di informazioni riguardanti quel piano di esistenza.
Dalle cose dette appare chiaro che lo Spirito si incarna per compiere delle esperienze. Ciò significa che quelle dottrine che. non contemplano tutta la gamma possibile delle situazioni incarnative e che predicano la filosofia della rinunzia totale alle esperienze non sono funzionali all’evoluzione e forse sono più adatte alle incarnazioni che concludono il ciclo della materialità. Infatti, se accolte acriticamente ed assolutisticamente le dottrine della rinuncia finiscono per vanificare il senso del processo incarnativo, danneggiano in modo abbastanza grave il processo stesso.
Dunque se guardiamo le cose dall’alto, vediamo che vi è una realtà universale qual è lo Spirito, il cui carattere fondamentale è l’immortalità. Ma questo Spirito entra anche in contatto (o si costruisce un rapporto o si sintonizza) con un’altra serie di manifestazioni energetiche, anch’esse eterne nel Principio, ma soggette a trasformazioni, scambi, mutazioni: vale a dire che entra in rapporto con la realtà fenomenica. È noto infatti il principio che «nulla si distrugge, ma tutto si trasforma» e questo principio afferma che nell’Universo non esiste il principio della Morte intesa come annichilimento, annientamento, ma che tutto subisce trasfor-
mazione, cambiamento di stato.
A questo principio obbedisce anche la struttura dello Spirito che, essendo una struttura primaria di tipo universale, non subisce, però, in quanto è individualizzata, processi di versamento, di scambio, di passaggio in altro da sè.
Lo Spirito, cioè, non è soggetto a morte. Quindi, da un lato vi è un Universo, una Realtà Universale che obbedisce a leggi intelligenti e dall’altro vi è un’altra Realtà Universale che non solo obbedisce a leggi intelligenti, ma ha anche il potere e la capacità dí comprendere e di riconoscere che le leggi a cui obbedisce sono intelligenti.
Da un lato v’è un Universo in cui i caratteri intelligenti si manifestano in modo assolutamente anonimo, e dall’altro lato esiste un Universo intelligente in cui l’intelligenza non è anonima, nè fittizia, ma specifica e reale.
Da un lato vi è un Universo che si riproduce e si riforma continuamente, dall’altro un Universo che non si riproduce, ma che rimane uguale a se stesso nella sua struttura profonda, e non può generare, ma solo autoevolversi.
Infine, vi è da un lato un Universo complessivamente infinito ed eterno, dall’altro un Universo di Enti unitari infiniti ed eterni.
Solo che questi Enti hanno in sè individualmente (oltre ai caratteri eterni ed infiniti) anche i caratteri dell’intelligenza.
Di fronte a questo scenario rimaniamo muti ed assorti.
Non oso neppure sfiorare il problema di Dio, anche se è implicito in tutto il discorso, anche se lui è presente in tutti i gangli fondamentali e sussidiari dell’intera realtà universale.
Nel concludere dirò che la Manifestazione dell’Entità «A» si raccorda, come abbiamo visto, con il patrimonio antropologico dell’umanità intorno a questi temi e getta nuova luce su di essi.
Il Maestro squarcia significativamente le tenebre che circondava la genesi delle più profonde dottrine spirituali che l’umanità ha prodotto e ci rammenta che c’è un rapporto sotterraneo che accompagna l’uomo che vive sulla Terra e non l’abbandona a sé stesso e che una «grande legge spirituale lo segue quando perde completamente la nozione della sua più vera natura”
Questa è la ragione e la finalità della fenomenologia dell’Entità A e del suo insegnamento che direttamente impegna il cammino incarnativo di ciò che definiamo il nostro Spirito immortale.
Carlo Adriani