Cominciamo con l’accorpare le prime due obiezioni e cioè che essendo la nostra coscienza una unità inscindibile tra il nostro Io di ieri e quello di oggi, noi siamo solo questa coscienza; e dal momento che non abbiamo ricordo di una coscienza precedente è evidente che essa non è mai esistita.
Queste due tesi sono insostenibili ed è anzi vero proprio il contrario. Infatti non è vero che necessariamente, ai fini dell’unità della coscienza, debba esservi la memoria della nostra vita spazio-temporalmente già trascorsa. Anzi noi non abbiamo completa memoria neppure della nostra stessa vita attuale.
Della nostra vita, non dico nemmeno già trascorsa, ma addirittura ancora in corso, noi ricordiamo poche cose e, in genere, solo quelle che ci colpirono in maniera più o meno fondamentale. Ma di questi stessi ricordi noi abbiamo spesso le immagini piuttosto che l’emotività e l’affettività legate alle immagini stesse. Ecco perché già farei questa distinzione fra memoria immaginativa (il ricordo) e memoria emotiva o affettiva. Non a caso, si dice, il tempo lenisce i dolori: in realtà cancella la memoria emotiva legata a quella del puro ricordo, cioè la memoria immaginativa. Sembra che la mente ci protegga al punto tale da trasformare l’emotività affettiva in altre forme percettive, come per esempio lo struggimento compensato, la nostalgia, il rimpianto, il desiderio, il bisogno: ma non più lo strazio del dolore. Cioè, in termini puramente psicoanalitici, la natura produce il disinvestimento affettivo dall’oggetto amato, lasciando — in condizioni non patologiche — forme rappresentative non traumatiche del ricordo.
Si può ricordare una persona morta ma, almenché non sussista una abnormalità del rapporto, non c’è più il dolore lacerante: il tempo, ovvero complessi meccanismi inconsci, hanno operato la rimozione del trauma e la sua per così dire sublimazione. Ma quanti di questi ricordi possediamo?
E tutte le altre cose vissute dalla nascita fino ad oggi le ricordiamo forse più?
Naturalmente ai reincarnazionisti compete comunque l’onere della prova, ma resta l’obiezione che non ha alcun senso affermare che la memoria della vita precedente dovrebbe essere collegata alla memoria di quella attuale per doversi ammettere la continuità e dunque la reincarnazione. In effetti si tratta di un falso problema dal momento che noi sappiamo benissimo di essere esistiti dieci o venti anni fa, senza necessariamente ricordare niente di quel tempo. Benché suoni paradossale noi non ricordiamo neppure di essere nati, benché questo sia un fatto certo.
E questo ci porta alla terza e quarta tesi. La terza sostiene che nessuno ha la coscienza netta di essere preesistito e le eventuali sensazioni che potremmo averne non sono provabili che sono vere. Torno a ripetere ciò che ho già detto. Non è necessario, perché sia esistita, che una realtà debba obbligatoriamente essere ricordata. Anzi, aggiungo, la stessa catarsi in corso di trattamento analitico o sotto shock comunque provocato, prova che anche l’eventuale emersione dell’inconscio può essere solo emotivo e non è obbligatorio il ricordo fotografico e la verità spazio-temporale dell’evento. Diceva Freud che non è importante ricordare o ricostruire la verità dei fatti accaduti, ma ciò che il soggetto ritiene di aver vissuto. Del resto, noi non ricordiamo almeno il 99% della nostra vita, né siamo in grado, quando ricordiamo, di operare una giusta collocazione storico-temporale dell’evento. Inoltre — e questo è fondamentale — tendiamo a dimenticar man mano che ci allontaniamo temporalmente dai fatti e dunque perché dovremmo ricordare un’altra vita?
Provate a pensare a questa stessa vita di oggi. Cosa facevate alle ore 12 e 3 minuti del 1979 nel mese di marzo?
Che cosa vi disse vostra madre quando nasceste?
E cosa vi disse il giovedì del 19… quando avevate ancora tre anni alle ore 10,30 di mattina?
Cosa stavate pensando alle 9 in punto di stamattina e cosa vi è passato per la mente appena, a tavola, aveva portato il primo boccone alla bocca al pranzo di oggi?
Com’era esattamente il vostro volto o quello di vostra madre, trent’anni fa?
Quella ruga sotto gli occhi c’era o non c’era a giugno dello scorso anno?
Sto esasperando il discorso?
Non mi pare. Sto solo cercando di spiegare, in maniera grossolana, come lavora la memoria rispetto agli eventi affinché sia più convincente che la nostra pretesa di voler dimostrare una preesistenza attraverso il ricordo, è una pretesa infondata. Per esempio, senza l’orologio, il calendario, le fotografie, gli specchi e i sensi, come ricorderemmo il passato?
E allora, ripeto, che senso logico può avere l’obiezione che non essendovi ricordo non c’è passato?
Invece, come ben sappiamo, è sicurissimo che il passato, anche senza il ricordo, esiste: e noi stessi ne siamo la dimostrazione vivente. Questo passato, tra l’altro, esisterebbe anche in assenza della nostra coscienza, come è provato dalle amnesie croniche e totali. È evidente, però, che stiamo fondando il nostro discorso secondo i criteri della soggettività: cioè sulla coscienza dell’Io al di là del ricordo hic et nunc.
Nella quarta tesi c’è poi contenuta una obiezione debolissima: «Non potendosi stabilire identità fra due coscienze incomunicabili, non potremmo espiare colpe precedenti perché non sì può pagare per colpe di cui non si ha coscienza né ricordo: la responsabilità è legata strettamente alla coscienza personale.»
Ho già espresso riserve sulla fondatezza del battesimo rispetto a questo concetto.
Se seguissimo questo ragionamento qualcuno dovrebbe poterci anche spiegare perché siamo colpiti da tanti guai personali o familiari, senza sicuramente aver mai fatto — in questa vita — niente di male. Perché un bambino dovrebbe nascere storpio o disgraziato se neppure ha avuto il tempo di dire amen?
Mi chiedo anche da dove nasce questa pretesa per la quale una sofferenza dovrebbe necessariamente essere legata ad uno stato di coscienza della colpa ad essa collegata, quando tutta l’umanità — come individui e come massa sociale — soffre senza minimamente potersi rendere conto del perché?
I negatori della reincarnazione (sulla quale, intendiamoci, dobbiamo essere molto cauti; e non è vero affatto che sbandieriamo questa ipotesi col crisma delle certezze assolute!) dovrebbero essere chiamati a troppe spiegazioni se volessero sostenere la relazione espiazione-sofferenza. Ma allora di quali colpe (e quando realizzate) si sarebbero macchiati i bambini del mondo, per esempio quei poveri bambini dei paesi sottosviluppati o quelli trucidati nei mattatoi nazisti, sicuramente senza colpe coscienti o inconsce?
E perché, allora, ci porteremmo sulle spalle un peccato originale che, come singoli, non abbiamo commesso?
Comunque a me sembra che anche la stessa impostazione reincarnazionistica pecchi dì semplicismo allorquando collega, in modo meccanico e quasi behavioristico, la reincarnazione al rapporto colpa-espiazione. Questo è un punto di vista molto limitato. Benché sicuramente sia ipotizzabile — almeno sul piano logico — una correlazione fra colpa e rinascita, sono propenso a ritenere, invece, estremamente fondamentale la lezione filosofica dell’Entità Andrea, cioè del mio Maestro Andrea, il quale sostiene che ci si incarna — e ci si reincarna — non tanto o non solo per espiare qualcosa (e comunque più che di vera espiazione si tratta di ricorreggere il disegno dei comportamenti e delle informazioni conoscitive di una vita già trascorsa), ma sostanzialmente si viene sulla Terra per conoscere ( Vedere più avanti, l’intervento sul Karma di Daina Dini). In tal modo le vite stesse, fondamentalmente, diventano momenti con funzioni e finalità estremamente costruttivi per la crescita dello Spirito, il quale percorre le vite materiali che, nella molteplicità delle varianze si offrono come uno spaccato estremamente significativo di quella natura meccanica più generale qual é l’universo che ci circonda. La vita umana rappresenterebbe, per questo essere spirituale, una esperienza di materialità, una modalità di conoscenza, un altro da sé per lo Spirito, la verifica diretta di una realtà la quale, senza il contatto col corpo, gli sarebbe forse preclusa. Come potrebbe, infatti, lo Spirito, di natura divina, conoscere (proprio nel senso dell’esperienza diretta, dell’informazione e della conoscenza, del sapere cognitivo cioè) un universo strutturalmente e sostanzialmente non omologo alla propria struttura spirituale?
Ed è proprio il problema dell’omologazione spirituale dell’altro — in questo caso l’universo materiale — che renderebbe necessaria la varietà e la molteplicità degli approcci alla natura dell’universo: tra questi approcci potrebbe sicuramente esserci la molteplicità delle incarnazioni qui o altrove. Ma perché, se le cose stanno così, non si ha ricordo di nulla?
Perché questo altro mondo, queste vite di un ipotetico Spirito, questo ricordo di un nostro precedente esistere ci viene così puntualmente e continuamente precluso?
Intanto non é proprio esatto che il ricordo sia così totalmente precluso. Benché molta letteratura sull’argomento debba essere presa con le pinze per la sua fantasiosità, vi sono casi ben documentati e formazioni mnemoniche che è difficile rifiutare come prove. La stessa ipnosi regressiva ci offre documentazioni di grande rilievo di cui si dovrà tener conto in una mappatura dei casi a sostegno.
A parte o comunque ciò, bisogna riconoscere che l’assenza di memoria è estremamente protettiva dal punto di vista psicologico allo stesso modo per cui noi tendiamo a traslare in memoria del ricordo sia la memoria emotiva che la gran parte delle informazioni; allo stesso modo noi selezioniamo le immagini del campo visivo in modo da non farci sopraffare. La neuropsicologia ci dice che se dovessimo avere contemporaneamente, nella coscienza di questo momento, il ricordo di tutte le successioni temporali degli avvenimenti da quando siamo nati ad oggi, o semplicemente degli ultimi giorni, impazziremmo. Impazziremmo anche se dovessimo contenere, nel campo visivo o auditivo, tutto ciò che cade nel cono di ascolto o di visibilità dell’occhio. Il cervello, nel selezionare, automaticamente si auto-protegge. Lo stesso si verifica anche nel campo dell’emotività, anche se qui la situazione diventa subito più complessa. Ma per quanto riguarda la memoria di una vita precedente c’è un’assoluta ovvietà nell’affermare che la nostra vita sarebbe tragicamente straziante se dovessimo ricordare questo tipo di passato. Ancora ricordo, a chi legge, la differenza, che facevo prima, tra emotività e rappresentatività. È chiaro che si può ricordare solo per rappresentatività: in questo caso, dicevo, si ricorda col solo rimpianto, nostalgia eccetera. E se, invece, dovessimo ricordare con emotività, con affettività, come quanto si soffre per un ricordo di avvenimento accaduto ieri o l’altro ieri, cioè di un avvenimento dal quale ancora non è staccata la sfera emotiva?
Né la pratica della relazione emotiva con gli oggetti significa, però, la perdita della nostra unità storica. Assai logicamente ha scritto il fisico Erwin Schroedinger (1887-1961) che non è proprio l’ultimo venuto essendo stato Premio Nobel nel 1933, e mai come in questo caso ciò che ha detto si collega col discorso di poc’anzi: «Potete andare a vivere lontano, in tutt’altro paese, perdere di vista tutti gli amici… farvene di nuovi… Il fatto che voi continuiate a ricordare i vecchi amici perderà progressivamente d’importanza nel procedere della vostra nuova vita… Eppure non è avvenuta nessuna interruzione, nessuna morte. E nemmeno se un abile ipnotizzatore riuscisse a cancellare del tutto le vostre reminiscenze anteriori, voi non trovereste che egli vi ha ucciso, In nessun caso c’è da lamentare una perdita di esistenza personale. Né questa perdita avverrà mai.»
È, credo, indiscutibile che la continuità del nostro sentirci e riconoscerci in qualsiasi condizione e situazione non si lega minimamente al mondo oggettivo che ci circonda, né alle nostre relazioni affettive, per cui la possibilità che si sia già vissuti assolutamente non può essere legata ai ricordi affettivi o informativi di queste altre eventuali vite. Non sono importanti i ricordi, ma la percezione della continuità del nostro interno: evidentemente questa continuità noi possiamo averla solo con la perdita del corpo, perché questo tipo di cervello che possediamo non ha la registrazione di una vita passata la quale, ovviamente, possedeva un altro cervello e non questo. Appare alquanto evidente che deve trattarsi, allora, di un altro tipo di memoria di cui, con questo cervello, non possiamo avere la rievocazione salvo quei casi (stati modificati di coscienza) in cui si entra in altre zone dell’inconscio, dove forse sussistono altre regolazioni e altri dispositivi mnemonici.
Sottolineo, dunque, l’assoluta necessità che il ricordo sia svincolato dall’affettività, almeno come regola generale. Lo so benissimo che tutto ciò rappresenta un limite per una ricerca fondata sulle prove dirette, ma non si può pretendere che i fatti siano imbrigliati dalle regole. Sono le regole che devono essere modificate in base ai fatti: cioè la scienza deve adattarsi alla modalità dei fenomeni, scoprendo l’adattabilità dei metodi alla natura dei fenomeni.
Questo principio, é superfluo ricordarlo, deve valere per tutto il campo parapsicologico.