ALDO MASTROIANNI
RELATIVITÀ DEL SAMSARA
L’argomento della conferenza è incarnazione e reincarnazione, un tema centrale nella speculazione filosofica buddhista: infatti vedremo che tutti i punti principali di questa religione sono legati sia direttamente che indirettamente a questo argomento. Cominciamo con una piccola precisazione: dal punto di vista buddhista più che di incarnazione è opportuno usare il termine “rinascita”, infatti secondo gli insegnamenti di Shakiamuni tutti gli esseri rinascono, ma non necessariamente in una forma corporea come una rinascita umana. Per il buddhismo ogni essere può infatti nascere in infiniti modi di esistenza e di forme, in un ciclo di nascite e di morti senza inizio, ciclo generalmente noto con il termine sancrito “samsara”. Le infinite possibilità di nascita vengono raggruppate in sei grandi categorie, di cui tre sono considerate nascite fortunate e tre sfortunate. Al primo gruppo appartengono le nascite come dei (deva), come semidei (asura) e come uomini, al secondo gruppo le nascite come animali, come spiriti famelici (preta) e negli infermi. L’affermazione fatta dal dr. Piga nella precedente relazione, che il Buddha Shakiamuni non si sarebbe espresso circa le vite future, abbisogna di alcune piccole precisazioni. Shakiamuni con il suo atteggiamento non intendeva certo negare l’esistenza delle vite future (come del resto di quelle passate), che sono alla base della dottrina buddhista in tutte le sue manifestazioni. Per essere più precisi la teoria del samsara o del ciclo di nascite e morti è precisamente l’oggetto della prima delle “Quattro Nobili Verità enunciate dal Buddha nel primo e famosissimo insegnamento che diede a Samath dopo l’ottenimento dell’illuminazione. Le “Quattro Nobili Verità” formano la base di qualsiasi scuola buddhista tradizionale del mondo; esse sono nell’ordine, “la Nobile Verità della Sofferenza”, “La Nobile verità della causa della sofferenza””, “La Nobile verità, della Cessazione della sofferenza”, e “la Nobile Verità del Sentiero”. Ebbene proprio la “Verità della Sofferenza” ha come oggetto principale il samsara, l’eterno ciclo di nascite e morti in cui ogni essere che non sia Buddha è costretto a girare spinto dal proprio karma e dai propri difetti mentali (klesha).
Quindi quando in qualche occasione il Buddha non si pronunciò sul destino futuro, era solo per evitare ai discepoli qualunque disputa di carattere metafisico, al fine di farli concentrare maggiormente sul problema attuale e presente della sofferenza senza inutili distrazioni che li potessero allontanare dal sentiero verso l’ottenimento della liberazione. Abbiamo spesso parlato del Buddha, cerchiamo allora di chiarire quale è l’essere che può fregiarsi di questo appellativo. Il Buddha, lo svegliato, l’illuminato è colui che si è liberato dal ciclo delle rinascite, il samsara, che ha cessato di sperimentare la sofferenza e contemporaneamente ha acquistato tutte le facoltà positive come l’onniscienza ecc. Quando affermiamo che per il buddhismo tutto è sofferenza si dice in effetti un’inesattezza, infatti il termine sascrito dukkha è un termine molto più ampio dell’italiano sofferenza con il quale generalmente viene tradotto. Il buddhismo infatti non nega l’esistenza della felicità, sarebbe illogico, ma afferma che all’interno del samsara ogni cosa è caduca è transeunte, alla felicità segue la sofferenza, al piacere il dolore, non esiste nulla di duraturo, tutto è impermanente ed è il nostro afferrarci alle cose o alle persone credendole invece permanenti che ci porterà inevitabilmente a sperimentare la sofferenza. Nel samsara si può rinascere in stati di grandissima felicità come nel mondo dei deva, ma anche questo avrà un termine e dopo si potrà cadere negli stati più bassi come per esempio in un inferno e sperimentare il dolore per milioni di anni. Il Buddha ci insegna, quindi, a non afferrarci alle illusioni del samsara ma a cercare la vera felicità duratura che risiede nel Nirvana, lo stato di illuminazione o beatitudine suprema e immutabile. Quindi per il buddhismo la rinascita non è una consolazione, ma soltanto un passaggio che dobbiamo affrontare per raggiungere lo stato al di là di tutte le varie rinascite, lo stato di illuminazione, il Nirvana.
Il nostro essere, il nostro io è un composto che si forma sulla base del corpo e della mente. La mente che sperimentiamo comunemente è una mente grossolana che abbandoneremo al momento della morte insieme al corpo. Ciò che trasmigra è il continuum mentale, è la serie di menti che si generano in continuazione una dall’altra. La nostra coscienza attuale non è più la stessa di un anno fa; ma ciò che ci lega a quella coscienza è proprio la loro continuità in un rapporto di causa ed effetto: una mente sperimentata genera la successiva che a sua volta genera la successiva in una successione o continuum di coscienze. Nella morte si ha un distacco tra la nostra mente sottile ed il corpo ma il continuum della nostra mente prosegue nella vita futura rinascendo in un’altra forma. La nuova mente sarà la mente del nuovo essere collegata al nuovo corpo, mentre la mente passata sarà morta con il corpo che la conteneva, ma tra le due rimane appunto il loro continuum che sarà anche il veicolo e ricettacolo delle cause karmiche accumulate nelle varie esistenze. Tra la morte e una nuova rinascita c’è uno stato intermedio, chiamato nel buddhismo tibetano “bardo”. È importante a questo punto aprire una piccola parentesi per spiegare che quando si parla di buddhismo tibetano non si afferma l’esistenza di un buddhismo creato in Tibet e peculiare soltanto al “paese delle nevi”, errore che purtroppo viene commesso spesso da persone male informate sulla storia del buddhismo e del Tibet in particolare. Infatti nel Tibet era in voga prima della triste occupazione militare cinese del 1949 il buddhismo mahayna sviluppatosi in India, in particolare nelle regioni del Kashmir, del Bihar e del Bengala, dalla fine del V secolo sino alle invasioni musulmane che dal XIV al XV secolo distrussero i grandi monasteri buddhisti ed estirparono la religione di Shakiamuni dall’India. In Tibet, per secoli, affluirono moltissimi maestri indiani che iniziarono al dharma re e principi Tibetani: i maestri ti-betani si limitarono a diffondere e a mantenere gli insegnamenti così ottenuti senza inventare nulla di nuovo. Quindi quando si parla di buddhismo tibetano si intende semplicemente il buddhismo mahayana diffusissimo in Asia in vastissime aree prima delle invasioni islamiche. Pertanto la teoria del Bardo non è una invenzione tibetana ma semplicemente un insegnamento che dall’India si diffuse in Tibet e da lì in Cina e Mongolia. Adesso vediamo di chiarire quale forza ci spinge a sperimentare le varie vite del ciclo del samsara. Questa forza è il karma o legge di causa ed effetto, legge che è alla base della seconda verità enunciata dal Buddha a Varanasi, la “Nobile Verità della causa della sofferenza”. La legge del karma, (parola sanscrita che viene tradotta come azione) comporta che ad ogni nostra azione compiuta attraverso le tre porte del corpo, della parola e della mente corrisponde un risultato, un effetto che può maturare sia in questa che in altre vite, questo risultato a sua volta sarà causa di altri risultati karmici e così via. Ogni nostra azione positiva porterà, secondo questa legge, come risultato la felicità, mentre ad ogni azione negativa corrisponderà come risultato la sofferenza: pertanto le rinascite nei regni fortunati saranno determinate dal karma positivo accumulato in diverse vite, mentre il karma negativo determinerà inevitabilmente la rinascita in uno dei regni sfortunati dove si sperimenta grande sofferenza. Il karma da noi accumulato quando incontrerà le circostanze concomitanti, chiamate karma secondario, produrrà inevitabilmente i suoi effetti e nessuno può impedire che questo accada, nemmeno lo stesso Buddha! Nel nostro continuum mentale vi sono innumerevoli cause karmiche accumulate in vite precedenti per cui è estremamente difficile sapere che tipo di rinascita avremo al momento della nostra morte: comunque un fattore molto importante è il tipo di mente che generiamo al momento della morte; se in quel momento la mente si stabilisce in un atteggiamento positivo senza attaccamento alle cose terrene, con pensieri altruistici, allora sarà più facile far maturare le energie karmiche positive; al contrario se nella morte si provano sensazioni di rabbia o di attaccamento, sarà quasi inevitabile la rinascita in un regno inferiore. Ma che cosa ci spinge ad accumulare il karma negativo, a generare la rabbia l’attaccamento la gelosia ecc.? É il falso concetto di Sè o di Io, prodotto dalla non conoscenza (sanscrito avidya). Il Buddhismo non nega l’esistenza di un Io, ma spiega il meccanismo in parte conscio o intellettualmente acquisito, in parte inconscio o innato con cui la mente disturbata dalle afflizioni mentali (sanscrito klesha) genera un io autosussistente non dipendente da parti e condizioni a cui ci si afferra. Un Io di questo tipo non esiste ed è questo l’oggetto che viene negato dalla concezione della vacuità (sanscrito shunyata). Noi creiamo quindi una realtà allucinata ed inesistente dandogli attributi di realtà e di indistruttibilità che non gli appartengono, creando così le premesse per la nostra sofferenza in questa e nelle vite future. Tutto il buddhismo poggia su questo concetto fondamentale, la vacuità (sanscrito shunyata) o meglio mancanza di una esistenza autocreata, priva di relazione con le proprie parti e condizioni, del proprio Io. Meditare e comprendere tale vacuità ci libera dall’esistenza ciclica e dalla sofferenza facendoci realizzare lo stato di Buddha cioè la terza “Nobile Verità”, la “Verità della Cessazione”. Il concetto di vacuità anche se con varie sfumature e differenze di metodo a seconda delle varie scuole interpretative è la base della religione buddhista e in defini• tiva l’accettazione o la non accettazione di questo principio d’inique un buddhista da chi non lo è. Tornando al momento della morte, va tenuto presente eh* il buddhismo ha sviluppato tutta una serie di meditazioni legate a quinto momento importantissimo di trapasso da una esistenza all’altra. Prima di entrare nel Bardo o stato intermedio si sperimentano dei segni collegati alla dissoluzione degli elementi che compongono il nostro corpo psicofisico. Con la dissoluzione dell’elemento terra nell’elemento acqua :ti vedranno come dei miraggi e si proverà una sensazione simile a quella di sprofondare in un precipizio; in quel momento il praticante che ha studiato e meditato capisce che è entrato nel primo segno dello stato di morte e abbandona ogni desiderio terreno preparandosi al trapasso mettendo in atto le opportune meditazioni. Con la dissoluzione dell’elemento acqua nell’elemento fuoco come segno appare del fumo; nel dissolversi dell’elemento fuoco nell’elemento acqua si ha come sogno interno l’apparizione di scintille; nel dissolvimento dell’elemento acqua nell’elemento aria appare una luce simile a quella prodotta da una fiamma di una lampada al burro, da questo momento sino alla luce chiara cominciano a dissolversi le coscienze, da quelle più grossolane via via sino a quelle più sottili. L’elemento aria si dissolve nell’elemento spazio ed appare una luce bianca simile a quella prodotta dal la luna in un cielo terso d’autunno, dopo appare una luce rossa simile al tramonto in un cielo d’autunno, infine si entra in uno stato completamente nero dove scompare qualunque apparenza. Da questo stato si emerge nella luce chiara che può essere paragonata alla luce chiara visibile all’alba, che è lo stato di grande purezza della mente originaria. I grandi Yogin riuscivano a questo punto a fondere la loro mente con la chiara luce divenendo proprio in quel momento dei Buddha. Per le persone comuni l’apparizione della luce chiara segna il definitivo distacco della mente dal corpo; infatti dopo la luce chiara, con un processo inverso di visioni si entra nel Bardo, lo stato intermedio che può avere una durata massima di 49 giorni e si divide a sua volta in sette parti di sette giorni ciascuna in cui si sperimentano di nuovo ogni volta i segni della morte e della rinascita. L’essere del bardo non ha ostacoli di nessun genere essendo formato soltanto da coscienza e da un corpo sottilissimo. In genere l’essere del bardo ha già una forma molto prossima a quella che avrà. nella nuova rinascita. Anche lo stato di Bardo è considerato molto importante per il praticante, infatti essendo la mente dell’essere in questo stato molto libera da impedimenti corporei, ha una grande facilità a cambiare ed a trovare nuove motivazioni: è come far cambiare rotta ad una piccola barca, questo è molto più facile che farla cambiare ad un grande transatlantico che in questa metafora rappresenta la mente racchiusa e condizionata dal corpo quando si è in vita. Alla fine del bardo vi è la nuova rinascita, verso cui ci spingerà la forza del karma: se prevarrà il karma positivo rinasceremo in uno dei tre regni fortunati, al contrario se prevarrà il karma negativo rinasceremo nei tre regni sfortunati, comunque come già detto, lo scopo del praticante buddhista non è quello di rinascere in una vita fortunata, ma quello di cercare la liberazione definitiva dal samsara. Al momento della nuova rinascita si avranno di nuovo i segni già visti con il processo della dissoluzione al momento della morte, ma in senso inverso a partire dalla luce chiara, poi il nero, la luce rossa e così via. L’essere del bardo se rinascerà come essere umano vedrà come in una allucinazione i propri genitori nel momento dell’unione sessuale e se rinascerà femmina proverà avversione verso la madre e attaccamento verso il padre, se rinascerà maschio avrà attaccamento verso la madre ed avversione verso il padre: una concezione, quella buddhista, che anticipa di più di 2.000 anni le intuizioni sull’inconscio e sul complesso di Edipo del dr. Freud! L’attaccamento e l’odio che l’essere del bardo prova prima di entrare nel grembo materno agiranno proprio come cause karmiche della morte del futuro essere: pertanto sarà molto importante conoscere le meditazioni adeguate per purificare queste cause negative nel proprio continuum mentale. Per concludere vorrei ricordare che tutto quello che sto dicendo mi è stato insegnato da diversi maestri tibetani che ho avuto la fortuna di avere come maestri. Vorrei citare tra questi il Ven. Gheshe Jampel Sanghe Ati, che ha lasciato il corpo nel 1981, il Ven. Dagpo Rinpoce che attualmente insegna a Parigi e il Ven. Gheshe Sonam Cianciub attuale direttore spirituale dell’Istituto Samantabhadra di Roma. Vorrei ricordare che questi insegnamenti appartengono alla grande cultura tibetana, cultura che, nonostante per secoli abbia diffuso civiltà e arricchito vaste aree dell’Asia, oggi è seriamente minacciata di estinzione a causa dell’invasione della Cina che ne sta distruggendo i fondamenti basilari ormai dal lontano 1949 senza che oggi, mentre vi parlo, se ne veda la fine. Pertanto concludo questo mio intervento facendo un appello a tutte le persone sensibili affinché aiutino questo grande popolo e il suo leader spirituale il Daini Lama nell’impari lotta non-violenta per tenere in vita eroicamente una delle culture più im-portanti dell’intera umanità, che anno dopo anno sta scomparendo nell’indifferenza generale del cosiddetto mondo civilizzato.