Pubblichiamo brani del Maestro concernenti il tema dell’interiorità che rappresenta la fondamentale linea di ricerca della «Scuola Superiore di Parapsicologia» all’interno del CIP di Napoli. Le indicazioni del Maestro sono cenni, ovviamente, che pubblichiamo per dare un’idea del «clima» che si vive(va) nel CIP, proteso a coinvolgere tutti noi nella individualizzazione dell’interno che coincide, come è noto, con i segnali della nostra Anima.
«Per catturare voi stessi dovete rinunciare alla vostra forma, al riconoscimento della vostra forma, cercando di riconoscere in voi altre cose, quelle più profonde, quelle più vere di cui non avete mai osato dire a nessuno, che non avete neppure osato pensare, perché le vostre ideologie ve l’hanno bloccate. La vostra parte vera, quella dovete catturare! Una zattera dentro di voi, un ponte dentro di voi, un punto per passare: questo è l’atto d’amore, questo è pregare Dio, trovare le sue tracce, come fanno gli animali quando cercano la tana e odorano, e annusano e cercano le orme degli altri animali, e cercano la direzione, un punto. Fare queste cose significa pregare, queste sono le cose che io chiamo la preghiera possibile,.
***
«I miracoli non vengono dall’alto, i «miracoli» vengono dal di dentro, possono verificarsi quando ci si incammina sulla strada, quando si cercano appunto le orme, i passi, gli «odori». Ma se non v’incamminate, «miracoli» non ce ne saranno. Il «miracolo» è dunque un momento in cui, incamminandosi si cominciano a discoprire una serie di cose: questi sono «miracoli», e si incrociano cose strane, interiori. Il «miracolo», certo, non è un’utopia, ma anche qui dovremmo cominciare a fare tutto un altro discorso, perché se per «miracolo» intendiamo quello che si chiede invocando le effigi, allora no!» Ed Andrea aggiunge: «Siate sicuri che, incamminandovi, ci sarà anche questo «miracolo», posso garantirvi che ci sarà. Perché quando si trova questa strada non è possibile non trovarlo. Questa è la strada che porta a Dio, è la strada sicura, pacifica e luminosa della Legge. Forse è un «miracolo» trovare la strada, forse è un «miracolo» indirizzarsi verso il punto giusto; ma anche questo è la conseguenza di una ricerca e non è vero poi che sia tanto un «miracolo». Semmai il «miracolo» avviene nel momento in cui riuscite a stanare il vostro egoismo materialistico e cominciate a pensare in un’altra dimensione. Quello, semmai, è il «miracolo», perché allora dovete vincere l’egoismo della materia, il sociale della materia, l’economico della materia e tutte le altre cose che vi bloccano. In questo senso, sì, possiamo parlare di «miracolo»! Poi, bisogna anche proseguire. Non basta trovare la strada. Bisogna anche cominciare il cammino, ma a quel punto allora veramente i «miracoli» si moltiplicano, perché il primo è il cambiamento che avviene nella persona, è vedere le persone trasformate totalmente. Ma io mi rendo conto di una serie di difficoltà, della vostra labilità, anche mentale: come uomini passate facilmente dallo spirituale al patologico, dalle fissazioni religiose all’autenticità. Veramente, appena superata la soglia della materia cominciate a smarrirvi, perché non avete un retroterra culturale in questa dimensione, non avete dei parametri abbastanza sicuri, ben annodati in senso storicistico. Andate un po’ alla ventura, nessuno vi ha mai insegnato a cercare voi stessi, soprattutto la religione cattolica non lo ha fatto. Naturalmente, questa grave mancanza nella cultura occidentale (per lo meno di quella cristiano-cattolica) vi ha portato in questa situazione e perciò io non vi dò tanta colpa. la religione che pensa per voi, sono i «santi» che pensano per voi, c’è un Dio che pensa per voi; voi dovete soltanto credere, pregare, inginocchiarvi e qui finisce il vostro compito, comportandovi secondo le leggi emanate dalla stessa autorità. Questo principio di affidamento vi ha fatto rinunciare completamente al principio della ricerca interiore. Ecco che allora, nel momento in cui sono caduti certi parametri mitici vi siete ritrovati completamente soli, incapaci di gestire la vostra interiorità (anzi neppure sapevate che c’è una interiorità) ne hanno soltanto incominciato a parlare certi psicologi: altrimenti di questa interiorità che ne sapevate? Vi hanno detto che avevate un’Anima e cosa fosse nessuno lo ha mai saputo, nessuno lo ha mai capito. Questa profondissima ignoranza vi ha resi totalmente esposti all’ateismo, ai materialismi, alle negazioni, alle depressioni, ai fallimenti individuali sotto il profilo spirituale» e psichico (CDA 1988, pag. 25-26). Voi sapete che l’interiorità, questo cosiddetto interno sicuramente si contrappone ad un esterno. La precisazione fondamentale che deve essere fatta per voi come per gli altri, è questa: quando parliamo di un interno e di un esterno, a che cosa esattamente ci riferiamo? L’interno di cui parliamo è in qualche modo collaterale oppure opposto all’esterno di cui stiamo parlando? Per esterno intendiamo la cosa più semplice che possedete, anche se è la più complessa: la realtà del mondo fenomenico quotidiano. Per noi è questo l’esterno che contrapponiamo ad un interno perché “noi” siamo l’interno e quindi il “noi” assume una valenza spiccatamente spirituale ed immateriale, perché non solo rappresenta ma «ci» rappresenta nei confronti di questo esterno, cioè della realtà fenomenica universale, parte della quale è la realtà dei corpi, parte ancora è l’ambiente in cui essi sono immersi, cioè l’universo infinito, rappresentativo, tangibile, l’universo della pietra, l’universo duro, l’universo che non ha le radici dell’autonomia e dello Spirito. Dunque per esterno intendiamo tutto ciò che non appartiene allo Spirito. Naturalmente questa è una classificazione fugace, veloce, perché strette inerenze vi sono tra interno ed esterno, ma noi preferiamo chiarire questa proposizione fondamentale, che cì sia cioè un esterno contrapposto ad un interno. Allora — ribaltando sintatticamente il discorso — perché diciamo che bisogna cercare l’interno, avendo detto che noi siamo l’interno e che noi ci rappresentiamo in questo interno? Ma perché nel momento in cui da incarnati formuliamo la domanda, non siamo più un interno, ma siamo un esterno che formula la domanda, cioè un coacervo linguistico, sintattico, cerebrale, pensante, ovverossia una mente umana e materiale che cerca la propria dimensione spirituale: e dunque cerca una internalità che le è del tutto esterna, perché la materia non ha un interno. Così concepito il discorso, ne deriva che corpi immersi in una materia posseggono un interno quando si riconoscono e quando di questo interno vivono le funzioni. L’uomo dirà che possiede un interno dal momento in cui le funzioni dell’interno appaiono evidenti. Qualora non apparissero evidenti, la domanda dell’uomo sarebbe peregrina; ed infatti l’unico essere che rivolge a sè medesimo la domanda sulla propria internalità è soltanto l’essere umano, l’unico che può dunque valutare l’opportunità che la domanda stessa provenga da funzioni superiori, vale a dire quelle funzioni che abbiamo detto essere dell’interno). Quindi, in questo doppio capovolgimento dell’immagine, questa presenza dello Spirito (ovvero la presenza dell’interno) appare sia che il problema venga visto dal punto di vista dello Spirito sia se viene visto .dall’uomo il quale offre la materia del proprio corpo perché emerga lo Spirito. Doppio trapasso o doppio ciclo della morte, dunque, dal momento che sia la nascita dello Spirito in Terra e sia la sua fuoriuscita dalla Terra rappresentano in tutte e due le evenienze fenomeni di morte, quindi una doppia morte sia per lo Spirito che per il corpo del vivente. Posta così la questione, alla domanda qual è l’interno, cos’è l’interno?» si risponderà che l’interno è tutto ciò che sfuggendo alle regole auree della materia, dell’universo meccanico, predispone all’ascolto di altre realtà, sovrasta, emula o parallelamente cammina insieme ad altre realtà. L’interno è dunque un alter ego della materia vivente: è una funzio-ne senza la quale il corpo del vivente non si eleva al disopra della soglia animale. Naturalmente anche qui abbiamo delle classificazioni di massima. Poi, come ben sapete, bisognerà andare a distinguere tra le misure intere e le mezze misure, cioè tra ciò che è spiccatamente dello Sprito e ciò che è a mezza strada, ciò che è alto e ciò che è basso o ciò che è men basso e men alto, ma tutto questo non riguarda tanto il problema principe, bensì una classificazione minuta ad uso del comportamento dell’uomo o di classificazioni delle attività di bene o di male nella vita quotidiana dell’essere. Ecco disegnate, in certo qual modo, le prime fondamenta di questo interno che sembra così lontano, tanto che taluni si chiedono dove sia. Dal momento che è cercato, desiderato, voluto, sembra distaccarsi o distaccato, sembra che si dissolva solo in una definizione. Credo che la difficoltà che voi avete continuamente di capire e di identificare, dipenda soprattutto da un cattivo uso delle vostre meditazioni. A coloro i quali cercano questo interno e chiedono dove esso sia o da che parte si cominci, io dico sempre che è proprio un problema di cominciare da qualche parte. Voi siete abituati ad una cultura e ad una identificazione di tipo teorico. Sin dalla nascita non siete stati addestrati a ricercare, a meditare; giunti all’età che avete, improvvisamente, da un giorno all’altro, vorreste cercare questo vostro interno. Molti di voi ci seguono da varie decine di anni, però io credo che nessuno abbia seriamente affrontato il problema della ricerca del proprio interno, che naturalmente è la ricerca della propria anima; voi non avete chiare le idee su ciò che è del corpo e ciò che non lo è, perché tutto appare del corpo. D’altra parte l’unica cosa certa che avete è ciò che del vostro corpo toccate, ciò che di esso vibra, odora, freme, soffre ed ama e si immalinconisce e cerca e desidera ed ha bisogno; man mano che vi spostate dal sensorio verso l’alto (o verso il basso, a seconda dei gusti geometrici), voi cominciate a non identificarvi più col corpo. Una lezione è dunque questa: attenti, vi sono cose del corpo in maniera certissima, come le sensazioni, i piaceri. Se una cosa vi piace a livello di corporeo, vi piace su quella parte del corporeo e non in un’altra, quindi voi identificate una carezza, una mano che si poggia, un sollecito, un graffio, un dolore. Oppure mangiate ed il cibo vi .piace ed è fermo lì al palato, là dove le papille recepiscono odori, sapori, gusti che vengono trasformati dal cervello in percezioni, in sensazioni piacevoli o spiacevoli: questo è un percorso che voi riuscite a fare. Oppure le conseguenze di ciò che cade sotto gli occhi, ad esempio una piacevole sequenza che può essere dolce, eccitante, calmante, commovente, o una musica che arriva alle orecchie… Ma ecco che da tutte queste cose, molto elaborabili, molto coniugabili fra di loro, poi passate ad altri tipi di percezioni: alcuni tipi di piacere, alcuni tipi di amore, l’affetto, il rapporto con l’altro, l’amicizia, il senso del perdono, la capacità di capire. Qui andiamo un po’ nel complesso, nelle percezioni che cominciano a non essere più percezioni poiché si svolgono in un mondo in cui comincia ad essere esclusa la parte corporea, sensoria, quella di immediato riconoscimento, l’universo duro, esterno, quello di cui si parlava. Siamo già in una zona che abbandona vari schemi funzionali al corpo e si predispone ad altri ascolti. Da questo punto in poi l’immaginazione crea nuovi bisogni, nuovi desideri e, a questi livelli, l’Anima vi suggerisce il da farsi. Allora quando dite «interno» non state più parlando di una cosa astratta, ma cominciate già a parlare di una cosa concreta —se concreta si può definire — di una realtà complessa che vive già al di là del corporeo ed è già apparentemente al territorio dell’interno. Questa è la zona interiore, ed è di questa che dovete parlare quando vi si chiede cosa sia poi questo interno di cui tanto si parla e di cui sembra che nessuno sappia indicarne le coordinate o mostrarne la direzione.
Vi guardate allo specchio e vi vedete come siete, maschi o femmine, belli o brutti, giovani o vecchi; insomma vi riconoscete con le vostre facce e dentro, dietro, in qualche punto di questa immagine siete voi che non vi specchiate nello specchio. Però siete voi; e questo voi non è l’immagine allo specchio, ma è l’immagine pensata, la radice del pensiero, l’origine, l’inizio da dove partono i pensieri, da dove parte la prima mossa del costruire il pensiero. In questo deve consistere la meditazione. La meditazione non è il pensiero a Dio, la meditazione non è il pensare ad uno Spirito o ad una realtà. Io molte volte sento da parte vostra strane meditazioni, strane concentrazioni; la vostra mente si concentra sulle cose più disparate e inutili. Concentrarsi sui fiori, sulle nuvole, su di un oggetto, sugli uccelli, sui quadri; io sento tutte queste strane «concentrazioni» che fanno anche parte di tradizioni culturali, anche religiose, e poco sento della autentica meditazione, che è la meditazione sulla radice e sull’origine del proprio pensiero. Il soffermarsi ad analizzare la modalità del come si è costruiti, di che cosa ciascuno di voi è fatto, analizzando i propri bisogni, le cose che si vorrebbero fare, quelle che si fanno, quelle che non si fanno ma che si vorrebbero fare, trovando per ciascuno un costante punto di riferimento, sempre con questa radice, col punto da cui si percepisce che nasce il pensiero, l’idea. L’identità, per essere più preciso: il punto in cui si costituisce la propria identità, il nucleo di cui ciascuno possa dire: questo sono io, qua sono io. Per raggiungere questo tipo di meditazione ci vogliono anche anni, perché è l’essenzialità, appunto. Perciò dicevo che è la radice, il nucleo primario, primordiale, del proprio »in sè»! Allora, quando si raggiunge questo non si dice più a se stesso: »chissà dove sono io?» o »Chissà dov’è il mio Spirito?», perché comunque sei tu, comunque è il tuo Spirito che in questo momento si sta chiedendo dov’è se stesso. Il tuo Spirito è talmente frastornato da tutta l’apparenza dello specchio, che non si riconosce, si sperde nei meandri del cervello, nelle sovrapposizioni delle immagini cerebrali, in tutto ciò che ha ereditato, in tutto ciò che gli è stato dato da che è nato fino ad ora. Nei colori, nei profumi, nei riconoscimenti che gli altri hanno di voi, nelle identità falsificate della realtà in cui vivete, in tutto questo lo Spirito non sa più dov’è, che cos’è, chi è, quale parte di tutte le cose che avverte è il vero “in sè» e qual è, invece, tutta la falsifica-zione. Non sa più autodistinguersì, è confuso: e in questa confusione si interroga, creandosi un falso problema e va a cercare se stesso fuori, in questo circuito che è il grande imbroglio della vita. Però, in questo grande imbroglio l’unica cosa certa è che esiste questa matrice originaria, ma talmente confusa, dipinta e mascherata, che, guardandosi in uno specchio, non si sa riconoscere e crede che si tratti di un’altra persona. Eppure, da questa descrizione abbastanza figurata che ho fatto, non è impossibile ricostruire il proprio io profondo. Non è tanto difficile come sembra, soltanto che bisogna dedicarsi a questo, non si può semplicemente ascoltare la mia voce. Anche se la sentite cento volte non ne ricavate niente. Oppure potete talmente impararla bene che siete capaci di declamarla anche a qualcuno: «Sai, tu per trovare il tuo Spirito dovresti fare così e così. Eh no! Ciò si ottiene soltanto meditando, sperimentando, sudando, lavorando in se stessi, facendosi travolgere, impressionando la materia, peccando, sconvolgendosi, sentendosi male: ecco il vero e pro-prio lavoro. È un lavoro di scavo e dovete sudare e lavorare con braccia metaforiche, con gambe metaforiche, con la vostra testa, sudare e sudare perché venga fuori come da una miniera il vero oro, cioè l’autenticità, perché siete troppo falsificati, troppo falsi, siete troppo un’altra cosa, siete diventati un’altra cosa nel momento in cui vi siete incarnati. Io stenterei a riconoscere i vostri Spiriti: e di fatto, io stento. Io li vedo perché, essendo Spirito, riconosco la natura dei vostri Spiriti ma se dovessi riconoscervi da come voi mi parlate, da come vi mostrate, non vi riconoscerei affatto. Siete truccati in maniera perfetta e siete su questa scena del mondo a recitare gran parte di un copione che non è nemmeno il copione dello Spirito, ma quello scritto dall’ambiente sociale in cui siete nati. Ma credo che sia venuto il tempo di fare attenzione a questo aspetto della vita. Mentre la teoria funziona nella generalità, nella sua storicità, c’è da fare un lavoro individuale ed a questo bisogna tornare, cioè al lavoro che poi è il vero motivo per cui lo Spirito viene in Terra. Cioè per capire, per avere informazioni e le informazioni non sono date dalla teoria: la teoria arriva soltanto in un primo momento a far capire che cosa si deve fare, ma poi si deve attuare, metterla in pratica» (Racc. Lez. 2-4-1989). «La saggezza consiste nello stare in mezzo e nel fare l’uno ed il contrario dell’uno, senza avere il complesso di colpa, il che significa riuscire ad essere puro ed anche impuro, essere estremamente spiritualizzato ma anche estremamente materializzato, poter mangiare sino a gonfiarsi e poter digiunare totalmente: il saggio è colui che sa fare tutte e due le cose, la cosa ed il suo contrario, senza avere il minimo complesso di colpa.
Il punto dell’equilibrio non è un punto imposto dall’esterno, non ci sono regole che impongono di andare di qua e di non andare di là, il saggio va da tutte le parti, perché dovunque vada egli è il proprio Spirito in movimento, dovunque vada egli è sempre se stesso, non c’è nulla che gli imponga di fare o di non fare, perché egli è se stesso qualsiasi cosa faccia e sta sempre bene con se stesso. In questa unione fra sè ed il proprio Spirito, come direste voi in un linguaggio umano, in questo c’è la liberazione dalle più comuni nevrosi, perché in realtà il saggio soffre ma non soffre mai troppo, così egli ride ma non ride mai troppo, e non c’è nessuno che gli dica come si ride o come si piange, egli sa che dovunque è al centro di se stesso, dove non ci sono altro che i riconoscimenti della propria identità in movimento. Perché alla fine si dovrebbe avere un complesso di colpa per qualcosa di cui si ammettono le regole pregiudiziali di certi doveri che portano soltanto sofferenza poiché non si possono attuare per tutta la vita? Certo c’è un dovere principe al di sopra di tutto: il primo dovere è non fare mai qualcosa che possa creare sofferenza negli altri, ma attenzione però. Anche gli altri dovrebbero attuare lo stesso principio, le regole non valgono solo da una parte, ma da tutte e due le parti, e così un uomo può dire ad una donna: io non farò mai nulla che possa crearti sofferenza, a condizione però che anche tu faccia la stessa cosa. Se analizzate queste due proposizioni vi accorgerete o che deve prodursi un cambiamento grande in ambedue, o che nessuno dei due produrrà il benché minimo cambiamento. Le cose stanno in questi termini ma voi siete talmente legati al mondo ed alle sue regole che ben difficilmente questi principi verranno messi in pratica. Eppure non c’è via di scampo: per sfuggire alle proprie nevrosi o sofferenze bisogna distanziarsi da certe regole, cioè da quelle che provocano continuamente sofferenza perché generano il blocco della vostra attività e vi riducono ad automi ancor peggio delle trappole che già sono i vostri corpi.»
Quindi è dalla propria interiorità che bisogna attingere la forza per i propri cambiamenti?
.Sì, purché sia una interiorità e non sia un’ideologia che vi hanno trasmesso. Anche qui bisogna stare attenti perché molte persone scambiano la propria interiorità con le regole; le mie regole interne, dicono alcuni, mi portano ad operare in questo modo, non accorgendosi che quelle regole non sono l’interiorità, quella a cui alludo io, cioè l’interiorità del proprio Spirito, ma quello che più strettamente vi appartiene, il vostro inconscio relativo alle regole che avete introiettate. Quelle sono naturalmente inconsce e fanno egualmente parte dell’interiorità, ma appartengono ad una interiorità fasulla, cioè quella interiorità che genera le nevrosi, non quella che libera; l’interiorità che libera è quella del vostro Spirito, cioè di un nucleo più profondo, quello che entra in conflitto con i complessi di colpa che avete dentro. «Ora, se voi rifletteste sul fatto che queste spinte della cosiddetta interiorità tendono soltanto a bloccarvi ed a crearvi ansie ed angosce, a rendervi schiavi di voi stessi, vi accorgereste che la meditazione su questo fatto metterebbe in luce che esiste in voi un altro giudice che comunque è il contrario di questa interiorità psichica. Notereste che avete due demoni interni: uno che vi spinge coattivamente a comportarvi secondo le regole, (e senza questo comportamento siete in conflitto di colpa) e un altro, quello che vi hanno spesso definito come il diavolo tentatore, che però non lo è ma è semplicemente il vostro vero Spirito che vi tenta perché non è per niente d’accordo con le regole del mondo. E perché dovrebbe essere d’accordo, dal momento che lui come Spirito non appartiene, se non provvisoriamente, a questo vostro mondo?
È possibile fare una distinzione tra l’interiorità profonda e quella acquisita dalla società?
«Si, questo si può fare, però a condizione che si abbia chiaro il quadro della propria situazione interna, che si sappia esattamente che cosa debba cambiare, dove e quando si deve cambiare, che insomma il programma sia strutturato, ma soprattutto che sia riconosciuto, perché non si può andare alla cieca, ma bisogna partire da ciò che ciascuno è, quindi anzitutto il programma che ciascuno si traccia potrebbe non andare bene per altri, questo è evidente, ma soprattutto potrebbe non andare bene se parte soltanto da una impostazione teorica. Deve essere un riconoscimento, anzi una programmazione radicata nella personalità, nella propria struttura reale, deve partire dall’interno e non deve essere programmata teoricamente, perché altrimenti si cade nell’errore di seguire un’altra ideologia, che è quella della programmazione che diventa una ideologia, cioè una sovrapposizione arbitraria che si vuole imporre a se stesso. Deve esserci un riconoscimento, una analisi interiore, bisogna essere in grado di sapersi valutare bene, e capire che cosa va bene in questo momento della vita, in questo momento storico dell’età, del lavoro, dell’insieme delle cose che si posseggono: che cosa è utile per crescere, e crescere bene e capire ulteriormente il mondo e sperimentare che cosa è utile per superare se stesso, crescere dentro, capire sempre di più. Partendo da questa analisi personale, allora è possibile riconoscere, fare programmi, strutturare una strategia, e andarla sempre a verificare, di volta in volta. Quello che sto facendo o quello che ho fatto stamane, mi ha portato qualcosa? Da stamane a questa sera si è modificato qualcosa in me, ho capito una cosa dí più? Nel bene o nel male, nel giusto o nell’ingiusto, ho capito? Ho una informazione in più, posso muovermi un po’ meglio perché la cosa che ho fatto stamane mi ha dato una qualità, una comprensione, un momento di felicità, un momento di rapimento o di dolore, o comunque mi ha fatto riflettere? Se tutte queste cose hanno operato in me una trasformazione, una riflessione, una meditazione, una valutazione, un giudizio, una critica, se comunque hanno mosso e sommosso qualcosa tra la mia mente ed il mio interno, quindi c’è stata una emozione nell’esperienza e ho fatto una cosa che comunque mi dà una traccia, allora l’esperienza è stata positiva? Se dalla cosa che ho fatto, da ciò che è accaduto, io traggo soltanto motivi di malumore, sono scontento di me stesso, ho qualche complesso di colpa,. ho insomma una serie di critiche e di valutazioni, sarebbe stato meglio se non l’avessi fatto, oppure se l’avessi fatto in un altro modo, allora quella è stata una esperienza che va ripetuta e corretta, finché dalla esperienza stessa non tragga un intimo, profondo sodalizio con l’universo, col mio interno, con la mia felicità di essere, di vivere, di esistere, di aver fatto qualcosa che in me può provocare il sorriso, il canto, il grido di felicità, il piacere di essere in me stesso, nel mondo e nell’universo. Queste, a varie gradazioni, diventano esperienze di crescita e di superamento dell’esperienza. Anche l’esperienza del dolore, del complesso di colpa, dell’insoddisfazione, ovviamente sono esperienze positive. L’esperienza però può essere positiva ma non produrre ancora evoluzione e vera crescita. È quando si è sedimentata, quando si è cioè radicata ed è completa che allora si è fatto veramente un passo avanti; l’esperienza è stata fatta, l’evoluzione successiva è stata raggiunta, abbiamo superato noi stessi di qualcosa e siamo diventati diversi: la crescita si è realizzata. Quindi questa strategia, questa riflessione e riflessività, questo lavoro dell’andare avanti a se stesso (che poi non è che debba essere schematizzato così, altrimenti dovreste stare con un quaderno in mano dalla mattina alla sera e sarebbe altrettanto penoso e ridicolo il doverlo fare), deve diventare un atteggiamento della vita, un modo di essere nel mondo, un modo di partecipare all’esperienza della propria esistenza. Essere coscienti di esistere e non lasciarsi vivere, appartenere a se stessi, al mondo, alla propria società, agli amici, alle persone che si amano; appartenere e darsi, appartenere e prendere e dare, appartenere e coinvolgersi tutti in un gioco, in un intreccio di amore, di esperienza, di essere, di esistere; e allora diventare così, scambiarsi, apprendersi, comportarsi in maniera fluida, forte o debole, ma comunque partecipativa, viva, attenta. Questo è l’essere nel mondo, appartenere al mondo, continuamente attivi, continuamente in movimento, continuamente presenti a se stessi, ma anche capaci di grandi assenze, di grandi movimenti di solitudine, di soliloqui, di meditazione: ma duttili, pronti a capovolgersi, essere appunto l’uno ed il contrario dell’uno, se stesso ed il contrario di se stesso, diventare sapienti per sè e sapienti in se stessi. Ciò significa vivere anche la quotidianità.
A me è capitato di aver capito che è attraverso l’esperienza felice che si capiscono le cose, perché la sofferenza blocca, mentre l’atteggiamento felice fa andare pia avanti.
É l’uno e l’altro. Non si può separare la sofferenza dalla felicità; devo dire, anzi, che la sofferenza induce alla meditazione più facilmente che non la felicità. Voi avete tanti momenti di felicità nel corso della vita ma non ci badate; sembra un fatto naturale che voi dobbiate avere certi momenti di felicità, momenti in cui vi date, siete contenti, meditate poco. Infatti io sono d’accordo che bisognerebbe molto sviluppare l’esperienza della felicità, ma ciò fa parte sempre del solito corredo più o meno religioso per il quale la felicità viene espunta e sottomessa ad una morale e bisogna essere continuamente seri e contriti nel pregare il Signore, come se il Signore avesse bisogno delle vostre lacrime e non della vostra gioia. La felicità, che pure è stata insegnata da alcune grandi religioni, non è stata perseguita. È una felicità quella a cui alludo, meditativa, capace di dare sollecitazioni. Non siete addestrati a questo, perché in voi è stato abolito il principio del piacere, ed è stato sostituito dal principio della contrizione perché tutto ciò che è piacere entra nella colpa, nel concetto di peccato. Ecco che, eliminati tutti i piaceri della materia ne resterebbero ben pochi altri: il piacere di un amore, dell’affetto, ma non so bene se possono definirsi piaceri e non piuttosto sensazioni, percezioni, sentimenti. Perché i sentimenti non necessariamente sono collegabili col piacere. Il piacere, la felicità nascono non da situazioni passive come l’essere amati. Se una persona non è amata, allora non dovrebbe mai provare piacere? E se una persona non ha l’incontro d’amore, se non ha persone che lo amano, e non ha un padre o una madre, se non ha figli che lo amano, cosa dovrebbe fare? Non dovrebbe mai avere piacere? A quali piaceri dovrebbe dedicarsi, come dovrebbe fare per essere felice?
Risposte mai date dalle religioni! Quindi una umanità condannata a soffrire a causa del rifiuto costante di tutto ciò che è legato anche alla materialità, concetto da noi introdotto e sostenuto sempre con molta forza. Ciò che è collegato alla materialità è considerato peccato e dunque l’uomo viene deprivato della cosa più naturale che dovrebbe possedere, la felicità collegata alla corporeità. Il discorso sarebbe lungo e per taluni complesso, però devo dire che sostanzialmente mi trova d’accordo il fatto che le esperienze debbano essere tratte dalla felicità e non necessariamente dalla sofferenza ma, poiché vi hanno insegnato che è dalla sofferenza che si trae l’esperienza, voi vi siete convinti che le cose stiano così ed accade che ormai in quell’orientamento finiate veramente col trarre esperienze solo attraverso il dolore. Con questo non si può negare che la. sofferenza induca alla meditazione, anche se più spesso induce alla disperazione più che alla meditazione. Anche qui è un problema di evoluzione, e se l’evoluzione non la si possiede, molto più facilmente ci si trova nella disperazione che nella meditazione. Quindi nella maggior parte dei casi la sofferenza non genera evoluzione, proprio perché è legata strettamente al rifiuto, alla disperazione, alla bestemmia, all’allontanamento dalla spiritualità, al senso d’ingiustizia che prende chi soffre, al senso di invidia verso chi non soffre. La felicità invece è qualcosa di diverso, erompe, è un canto, è una musica, è un piacere che pervade il corpo, la mente, le parti più profonde dei sensi, la persona è felice, si libera, canta, potrebbe volare se sapesse farlo. Tutto questo andrebbe collegato con un valore spirituale, con un ritrovare la liberazione, quindi con un ritrovare lo Spirito; perché lo Spirito altro non desidererebbe che l’autoriconoscimento all’interno della coscienza, dunque i momenti di liberazione, i momenti dell’irrazionalità, dove ormai noi vi stiamo dicendo: è lì che c’è lo Spirito. C’è lo Spirito quando vi liberate dalla ragione, quando riuscite a vivere una libertà al di fuori delle regole della mente, lì più facilmente trovate lo Spirito. Allora ecco l’irrazionalità, il grido, il piacere, il portarsi al di sopra del proprio corpo, utilizzando il corpo per liberarsene, e cioè per andare oltre. Con l’oltrepassamento del corpo, lì veramente comincia il senso dello Spirito, il senso di un sacro non necessariamente collegato alle lacrime, un sacro collegato invece proprio con la felicità che deriva dall’appartenenza a qualcosa di più alto, la felicità collegata all’appartenenza al mondo, all’universo, alla divinità, alla propria interiorità di Spirito, alla propria libertà, alla propria sopravvivenza. Si tratta di tutte cose felici, lietezze, piaceri profondi, stemperati nella coscienza della propria illuminazione. Quindi sono d’accordo sul collegamento felicità-esperienza spirituale. È, questo, tutto un settore da sviluppare culturalmente, poco seguito, poco perseguito, perché si è sem-pre cercato di lottare contro la felicità in favore della severità, del rifiuto, con l’idea del peccato, del diavolo, con questa greve atmosfera nera, funerea, dei cimiteri, delle tombe, delle messe sacre, dei parametri a lutto, laddove Dio non c’è, perché Dio è creazione, Dio è grandezza, Dio è potenza, Dio è l’energia che straripa nell’universo, che straripa nel momento in cui io parlo a voi e voi parlate a voi stessi e vi rivolgete a Dio, nel momento in cui lo nominiamo, nel momento in cui siamo appunto felici e ringraziamo Dio per averci dato l’appartenenza a noi stessi, per averci dato il senso di noi, la capacità di autoriconoscerci e anche di sentirci figli di Dio stesso: tutto questo ci rende felici e non certamente lugubri. Noi non apparteniamo alle tombe e non apparteniamo ai riti funerei delle vostre rappresentazioni più o meno mascherate, noi siamo esseri spirituali che riconosciamo l’esistenza di Dio e nel Suo nome e nella Sua Legge e nella creazione di cui siamo costituiti sentiamo questo senso profondo del nostro essere. Sentiamo, siamo, diventiamo, ditelo come vi pare, la partecipazione illuminante e luminosa a questa forza eterna e incorruttibile di cui siamo costituiti e costruiti come esseri spirituali. E questo non può che darci ciò che voi in termini umani chiamereste felicità, e che per noi è soltanto il senso di appartenenza alla nostra eternità individuale (Racc. Lez. 13-11-92).