TERZO ESCLUSO

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(Da: Nel segno del Padre, Piccola guida per il credente imperfetto, a cura di Corrado Piancastelli, CIP, Napoli, Monografia 1995, pagg. 11 -12)

    È il principio del tertium non datur, vale a dire che A è B, oppure A non è B. Perché poniamo nella nostra premessa questo principio del «terzo escluso» che fa parte, com’è noto, della logica aristotelica?

    In questa logica si afferma che ogni proposizione (dotata, ovviamente, di significato) o è vera o è falsa. Oppure, detto in altro modo, di due proposizioni fra loro contrarie, una sola è utilizzabile. Questo principio, da Aristotele in poi, è talmente diffuso da essere entrato in tutti i sistemi logici e finanche nel linguaggio comune: una cosa o è vera o è falsa. La citazione del tertium non datur, non è peregrina perché nel nostro caso abbiamo varie proposizioni contrastanti. Per l’ateismo Dio non esiste, per il deista sì; per alcuni di Dio non si può parlare, per altri sì; per i personalisti Dio è soggetto descrivibile, per i filosofi Dio è indescrivibile. Chi ha ragione?

    È vero, che parlando di Dio egli è in un modo e non in un altro, che se è giusto non può essere il contrario, che cioè non possiede la contraddizionalità?

    Si può radicalizzare l’impostazione aristotelica fino a questo punto?

   Questo principio, è bene dirlo, ha goduto di grande successo presso i logici e i matematici (per costoro le asserzioni sono vere o false indipendentemente dalla loro verità reale). Ma già nel Novecento il principio del “terzo escluso” è stato negato dagli intuizionisti i quali giustamente dicono che il principio è valido solo se si applica a oggetti finiti, anzi a collezioni o insiemi finiti, ma è inapplicabile se esteso a insiemi infiniti. Nella fattispecie non appare possibile far valere il “terzo escluso” nelle coppie oppositive, per esempio Dio esiste/non esiste, è finito/infinito, è assoluto/relativo, personale/impersonale, creato/increato ecc., trattandosi di coppie indimostrate nei loro termini opposti, per cui tutto il discorso su Dio, essendo analogico, non può dare nulla per certo. E’ questo il motivo per cui inviterei chi legge a predisporsi con questo spirito di servizio, nel senso di utilizzare la ragione senza comunque asservire questa alla negazione o, quando il suo istinto interno lo reclama, di abbandonarsi alla fiducia senza asservirla necessariamente alla fede. E inviterei anche a diffidare, come fanno i seguaci dello Zen, da coloro i quali affermano con certezza che le cose stanno in un certo modo e non nell’altro. Ecco perché, dicono i saggi, “se incontri il Buddha uccidilo”, perché non può essere lui.

    Noi non abbiamo alcun dovere di credere o non credere, perché non abbiamo alcuna certezza da cui far derivare un imperativo di accettazione. Ma, diceva il mio amico Giuseppe Berto, «non è necessario credere in Dio, ma cercarlo». Da qualche luogo della nostra memoria interiore, qualche risposta ci dirà come realmente, per noi, stanno le cose in quel momento. Però le risposte non si ottengono col solo interrogare, ma creando le condizioni dell’ascolto. «Quella voce», se c’è, non appartiene alla «lunghezza d’onda» dei neuroni.

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