DIO NON GIUDICA MAI

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    C’è una immagine molto infantile di Dio, presente nella povera cultura spirituale degli uomini che concepiscono continuamente questo Dio antropomorfico seduto su uno scanno che giudica le anime penitenti che hanno finito di vivere. In questo strisciare delle anime imploranti misericordia e pietà, francamente io non riconosco Dio, ma soltanto le immagini malate degli uomini che vorrebbero ancora continuare a controllare e dominare gli esseri che furono vivi, anche da morti, attraverso sottotribunali che verrebbero affidati alle varie figure intermedie che hanno collaborato con Dio. Ora dunque, il giudizio finale deve essere preso nella metafora ovviamente di un riassunto esistenziale di un insieme di attività e di vite, deve essere riproporzionato alla qualità dello Spirito che vive la sua «stagione eterna»; e in questa eternità egli conquista e produce gli spazi di controllo e quelli di analisi, di critica, di riserve, di proposte, di progetti, di programmi, di intelligenze. All’interno di questo gioco esistenziale c’è implicitamente il concetto di un giudizio sul proprio operato, ma il giudizio è soltanto il momento della riflessione meditativa del complesso della propria attività e non un «giudizio tribunalizio» su fatti che comunque riguarderebbero la vita individuale dell’Essere. C’è poi da sottolineare un’altra cosa importante e cioè che ancora una volta la figura di Dio appare come la figura severa del capo che controlla la sua corte, le sue falangi, i suoi figli; del padre autoritario che giudica il bene e il male. Voglio dire che questa immagine allontana dal concetto di unione che dovrebbe esistere nel rapporto tra Io Spirito e la divinità. E questo è ancora più grave perché lo Spirito è una funzione strutturata, emanata dalla Divinità, autonoma e libera, che da sola come struttura ha la responsabilità di se stesso. Lo Spirito, in termini pratici, non deve rispondere a Dio di ciò che fa, poiché rispondendo a se stesso ha già esaurito in se stesso il proprio giudizio perché lo Spirito è già Divinità, è struttura divina. In termini umani lo Spirito ama Dio, ma non è sottoposto all’autorità se non in senso traslato. E allora in questa traslazione abbiamo la metafora, ma è difficile capirla: c’è la metafora dell’obbedienza, c’è quella del rapporto simbolico obbediente (fra il sé Spirito e il padre Dio) che viene vissuto non secondo un rapporto di giudice e accusato e non secondo un rapporto di padre e figlio, ma all’interno di una simbiosi che io vorrei dire d’amore se il termine amore non fosse impuro; di una simbiosi fra lo Spirito stesso e il padre che è dentro lo Spirito stesso. Qui veramente ha senso una Trinità, concettuale: padre e figlio sono la stessa cosa inquantoché il figlio è un generato del padre e come generato del padre egli è padre nella propria natura e, dunque, non può ubbidire ad un esterno, ma riconosce l’esterno obbedendo dall’interno: essendo una struttura divina lo Spirito non può trovarsi mai fuori dalla legge, perché dovunque si muove è sempre in Dio. Noi non abbiamo mai lasciato il Padre, siamo sempre rimasti nel Padre, perché Dio è sempre più grande di noi ed essendo più grande di noi ci comprende: la cosa compresa è sempre all’interno di ciò che comprende.

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  1. Purtroppo da secoli si dipinge un Dio punitivo, che interviene nelle vicende umane. Quante volte abbiamo sentito esclamazioni – Dio mi hai abbandonato, Dio perché mi punisci-.. oppure che perdona ma a patto che preghi o fai penitenze , nel medioevo esistevano autoflagellazioni .

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