ISTINTO DI VITA E ISTINTO DI MORTE NELL’UOMO. ASPETTI DEL RAPPORTO SPIRITO CORPO.

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D. – Secondo una certa teoria si può nascere con l’idea del suicidio latente nel cervello, e in determinate circostanze essa potrebbe prendere il sopravvento e quindi permettere la concretizzazione dell’atto suicida. Può essere vero? In altri termini è come se fosse un germe congenito.

A. – Tu conosci benissimo tutto ciò che riguarda il suicidio, almeno nel senso dei conflitti continui che esistono anche nell’individuo normale tra l’istinto di vita e l’istinto di morte, che hanno la loro radice nella stessa essenza della materia, intendendo che l’aggregato cellulare di cui è composto l’organismo (anche per quelle parti che sono preposte alle funzioni più alte) tende alla dispersione, cioè a ritornare alla natura, all’Universo, all’ambiente dal quale è nato: perché, in fondo, un corpo che si accresce da bambino, é un corpo, è un complesso che preleva dall’ambiente attraverso l’alimentazione, attraverso la respirazione, attraverso le sue stesse possibilità cellulari.

Gli elementi componenti questa sostanza, e soprattutto gli apparati bioelettrici, di cui dicevamo poc’anzi, tendono, in un certo qual modo, a disgregarsi nuovamente. L’unità è retta proprio dalla forza di coesione cellulare che, unitamente alla globalità degli individui, tende a conservarla, a riprodurla.

Nasce così l’istinto di conservazione in difesa dell’unità e della continuità della specie, come tendenza alla riproduzione. È una potente forza che stabilisce l’unità, ma che è combattuta dall’istinto della disgregazione che corrisponde a un ritorno all’Universo.

A tutto questo fa riscontro una quasi uguale situazione al livello delle facoltà più alte, cioè delle facoltà psichiche e, se vogliamo, anche delle facoltà spirituali. Lo Spirito, per conto suo, tende a ritornare nel proprio ambiente, cioè ad allontanarsi dal corpo e tende a ciò, direi, inconsciamente. (anche se il termine non è esatto per lo Spirito, il quale non ha un inconscio), diciamo tende inconsapevolmente ad allontanarsi. Cioè, l’individuo tende costantemente alla morte – se vogliamo usare questi termini – alla separazione tra Spirito e corpo. L’unità è retta da che cosa? Dalla necessità da parte dello Spirito di conservarsi il corpo perché esso gli serve per i suoi progressi.

Il complesso psichico, cioè tutto il complesso di attività che corrisponde all’intelligenza, alla personalità, all’individualità, tende invece a conservarsi unitamente al cervello. Perché esso dipende da questo cervello, è nato da questo cervello e tende a conservarsi. Però, poiché è parzialmente autonomo rispetto al cervello, questo aspetto autonomo tende a sbloccarsi dal cervello stesso. Tutto ciò rappresenta un continuo conflitto che è stato identificato come conflitto tra istinto di vita e istinto di morte.

Su questa situazione abbastanza complessa, e affatto chiara, sorge la personalità dell’individuo con tutti i suoi fattori: educativi, sociali, economici e via di seguito, i quali sono in parte espressione qualitativa e quantitativa di questo complesso biologico. Si tratta però, spesso, di situazioni della personalità a loro volta in conflitto con questa sistemazione biologica, specialmente quando i fattori educativi non coincidono più con i fattori istintivi del corpo. Cioè quando tra gli istinti naturali della specie e le necessità della personalità sociale, costituite per ragioni storiche, educative ecc., sorgono altri conflitti; cioè quando l’individuo non vive la pienezza della vita, ma vive una vita convenzionale qual è quella che vivete un po’ tutti.

Allora che cosa si ha? Si ha naturalmente ancora un’altra frattura tra l’istinto biologico di vita e di morte, se vogliamo, e le necessità contingenti, provvisorie, piuttosto false della personalità che vive. Una frattura, dunque, all’interno dell’individuo, con istinti che pressano da una parte e che sono insoddisfatti, e necessità sociali, educative dall’altra.

Tutto questo se si va a impiantare su di un complesso di personalità biologica non sufficientemente armonizzata (perché per aversi un individuo biologicamente equilibrato bisogna che ci sia una compensazione abbastanza precisa tra istinti di vita e istinti di morte), se già vi è un’alterazione e su questa alterazione – con preponderanza dell’istinto di morte, quindi con una personalità depressiva, maniacale – sia pure non patologica – va a impiantarsi una frattura evidente tra istinto e vita, è chiaro che si ha un ribaltamento anche a livello della coscienza; l’istinto di morte prende definitivamente il sopravvento e l’individuo è votato al suicidio.

In questo caso si può accettare questa candidatura iniziale al suicidio.

Devo però aggiungere una cosa: il suicidio non è soltanto quello appariscente che definite voi, cioè il morire volontariamente per propria mano in un atto drammatico e disperato, ma esistono varie altre forme di suicidio che non sono così cruente, ma che vi corrispondono praticamente. Perché quando l’individuo ha in preponderanza questi istinti di morte è portato a morire anche in circostanze drammatiche ed eroiche.

Prendiamo il caso di individui del genere che si trovano in guerra; questi individui candidati alla morte sono quelli che diventano gli eroi, in pratica, perché l’istinto di vita viene spazzato via del tutto e, nella situazione suggestivo-drammatico-storico-politica che si viene a determinare, prende in loro il sopravvento un apparente altruismo, eroismo o amor di patria, che, in definitiva, ha le sue radici nell’istinto di morte.

Vedete, un individuo perfettamente equilibrato, sapendo che può morire sul campo di battaglia tende a proteggersi, a non fare l’eroe. Perché l’istinto di vita predomina normalmente sull’istinto di morte.

Nell’istinto di vita che predomina in maniera eccessiva si ha l’individuo addirittura pavido, vile, che può fuggire, che si nasconde. Quando l’equilibrio invece è costante vi è l’individuo prudente che non si espone inutilmente, che in pratica non fa l’eroe.

Questa chiusura, diciamo, che apparentemente risuonerebbe antipatriottica agli occhi di molti, in realtà ha una sua radice strettamente biopsicologica. Nessun essere umano affronta la morte a cuor leggero e col sorriso sulle labbra; queste sono frasi dei poeti, in realtà, o frasi dei pazzi. L’individuo biologicamente sano non affronta la morte così, almenché non sia fortemente educato alla morte, come può essere il caso di santi, di martiri e di individui spiritualmente preparati che con cognizione affrontano la morte, sapendo che questa è una cosa che predispone all’altra vita. Ma quando, insomma, tutti questi elementi non esistono e l’individuo freddamente affronta la morte, anche in nome di un ideale, bene, bisogna andar cauti nel giudizio. La definizione di eroi spetta a ben pochi. Questa è la mia opinione.

D. – Questo conflitto tra istinto di vita e istinto di morte, esiste negli animali?

A. – Sì, è presente anche negli animali, perché è di natura biologica, sia pure non totalmente.

D. – Questo equilibrio è quindi mantenuto dalla personalità dell’individuo.

A. – È tenuto in vita da elementi psichici che sono legati al cervello e che tendono dunque alla conservazione, e all’unità complessiva, perché l’unità complessiva cellulare ha anche forza di coesione. D’altra parte vi è, direi quasi – sia pure con una definizione banale – l’istinto alla dispersione: il corpo tende a ritornare alla natura.

D. – Perché l’eroe non potrebbe avere un ideale che lo congiunge a Dio, così come il santo? Non mi è chiara la differenza.

A. – Dunque, io non capisco bene questo ideale dell’eroe che sul campo di battaglia ammazza il prossimo e che poi tende a Dio.

D. – Ma, veramente si fa uccidere lui…

A. – Ma naturalmente si suppone che l’eroe ammazzi anche il prossimo. Perciò ho detto che ad altri spetta il nome di eroe, tanto per usare questa definizione retorica. Per esempio è eroe colui il quale sacrifica la propria vita per salvare quella degli altri. Naturalmente, è chiaro, anche qui bisognerebbe esaminare la questione e vedere se non vi sia in lui un tale desiderio di morire che la vita gli diventa insignificante e l’offre volentieri ad altri: Ma quando l’individuo sano, equilibrato, rinunzia alla propria vita per salvare quella degli altri, che non siano naturalmente i propri figli, beninteso (altrimenti il termine di eroismo non si applica più), allora sì, io devo parlare di eroismo. Ma per colui il quale sul campo di battaglia, direi piuttosto istericamente e pazzamente, si lancia contro il nemico per odio, per il solo desiderio di uccidere il prossimo, di distruggere il nemico, bene, io andrei cauto con questa definizione in senso anche un po’ spirituale.

Poi, dal punto di vista strettamente sociale, civile, politico, si capisce esso viene considerato un difensore della patria. Non starò qui a discutere su questo. Si capisce, dal punto di vista umano gli spetterà lo stesso la palma dell’eroismo. Ma io dico di no. Colui che selvaggiamente uccide il prossimo chiamato nemico non è un eroe, ma deve essere considerato un individuo patologico.

Ora, tu mi parlerai dell’ideale, tu dirai: ecco, c’è l’ideale della patria. Io posso ammettere una cosa volentieri e l’ammetterò, e cioè che gli individui possano agire in buona fede. L’individuo che va in guerra è suggestionato da tutto l’apparato storico-politico per il quale agisce; dalla sua bandiera, dai canti, da tutte queste belle cose, e, in buona fede, va a combattere e fa il suo atto di eroismo, e crede veramente che quello sia il nemico che si deve odiare perché gli hanno detto così. Sì, io l’ammetto, però questa buona fede, salvo casi particolari, va a congiungersi sempre con un istinto. Tant’è vero che sui campi di battaglia se ne vedono delle belle da questo punto di vista.

Cioè gli individui reagiscono differentemente tra di loro di fronte al pericolo della morte.

Almenché la suggestione quasi ipnotica non sia giunta a un tale grado da annullare completamente la personalità. Se l’ipnosi è giunta a tale punto è chiaro che cade anche la responsabilità, cioè l’individuo fortemente suggestionato non è più responsabile del suo “eroismo”. Cioè, un individuo irresponsabile, che faccia l’eroe o faccia il vigliacco è la stessa cosa.

D. – A questo punto vediamo che il soggetto è in un certo senso come una cosa in gioco tra forze che non può comandare, come quella della suggestione, del condizionamento e di tante altre circostanze di carattere ambientale. E quindi io mi chiedo: in che misura l’uomo ha merito per ciò che fa?

A. – Un individuo ha il merito del male o del bene che fa solo per quelle azioni che implicano un atto di volontà, un effettivo superamento o una effettiva coercizione sulla condizione stabile della propria personalità.

Che cosa significa questo? Gli individui nascono secondo inclinazioni che non dipendono da loro, come diceva Epitteto.

Tra gli individui vi sono quelli che nascono buoni e quelli che nascono cattivi: i santi, gli storpi, gli ammalati, chi bello, chi brutto; ma soprattutto limitiamoci a due cose: vi sono individui che nascono con certe disposizioni: chi con disposizione al bene, chi al meno bene, chi al grande bene.

Queste disposizioni, noi lo sappiamo, dipendono in parte dall’evoluzione dello Spirito; in parte da strutture ereditarie, biologiche; in parte da fattori educativi, sociali; in parte dall’ambiente storico in cui vivono ecc. L’individuo, cioè, agisce indipendentemente dalla sua volontà, per un naturale evolversi dei giorni e della vita, e compie una serie di azioni che più o meno vanno a soddisfare la struttura complessa della sua personalità.

Queste azioni possono essere buone o non buone; sono comunque azioni pertinenti e direttamente proporzionate alle necessità biologiche, psicologiche e spirituali. Sono, dunque, azioni che non implicano alcuna scelta o alcuna volontà, ma che sono semplicemente quelle ovvie e naturali che un individuo di una certa capacità, di un certo valore è in grado di fare. Dunque, non c’è né bene né male.

L’uomo il quale nasce e cresce, diciamo così, tarato, cioè da una famiglia di ladri, di delinquenti e che ha tutta una struttura così composta, è portato nella sua vita a compiere una serie di azioni e ad avere certi atteggiamenti che la società considera negativi, deliquenziali ecc. Ma da quel punto di vista, e cioè per quell’individuo, le azioni non sono né negative né positive; sono semplicemente le azioni che in base a fattori ereditari, educativi e sociali può compiere, sa fare, e sono le uniche azioni che lo soddisfano.

In quel caso, in quell’individuo, quand’è che si comincia a parlare di bene o a parlare di male, limitatamente a quella capacità? Quando l’azione di male è nettamente inferiore al suo stato di soddisfazione psicologico e biologico, o quando l’azione di bene è nettamente superiore, ma proporzionata alle sue condizioni psicologiche e biologiche. Questo anche dal punto di vista della giustizia divina. (Qui intesa ovviamente non in forma diretta ma considerata in relazione a tutti i principi e leggi di effettivo valore spirituale e universale. – Nota del curatore.)

Per colui che nasce, diciamo così, con disposizione a fare il santo, tanto per intenderci, il bene comincia nel momento in cui la sua azione veramente scelta e deliberata supera i suoi limiti fisici, biologici e psicologici e comincia una sorta di sacrificio, di azione cosciente per qualche cosa di superiore. Naturalmente, il santo che compie un bene inferiore alle sue capacità commette “male”. Se un santo ha la capacità di dare al prossimo tutto ciò che ha, e a un certo punto comincia a non dare più tutto ciò che ha ma solo una parte al prossimo, questo è il suo male, il concetto è questo.

D. – Mi è sembrata solamente teorica questa possibilità che tu avevi delineato circa il proprio equilibrio biopsichico, perché, allora, si ammette un intervento preponderante dello Spirito nelle azioni ed esperienze umane, altrimenti non si potrebbe uscire dal proprio equilibrio…

A. – Vorrei anzitutto che voi teneste presente una cosa molto importante e cioè che quando ho parlato di superamento, cioè di quel margine di valore effettivo che passerebbe allo Spirito, quando l’individuo supera la propria condizione naturale e ovvia, questo non rappresenta il fine della vita dello Spirito.

Involontariamente, voi state confondendo due cose. Lo Spirito non viene sulla Terra per cercare quel margine in più che sia di meno bene o di meno male, ma lo Spirito viene per quella grossa questione che abbiamo sempre detto e cioè per assumere attraverso il contatto con la materialità la conoscenza dell’altra funzione universale, cioè dell’apparato stesso universale.

Che poi nell’ambito di tutta questa grossa esperienza della materialità, egli si evolva attraverso questi scarti, direi, tra queste minime differenze tra bene e male, con l’impiego della sua volontà spirituale, questo è già un fatto marginale, è una delle modalità; ma la funzione fondamentale dello Spirito è venire a contatto della Terra per apprendere e conoscere la struttura universale, cioè quest’altra faccia della legge universale. E il fatto di incontrare un corpo, fatto in un certo modo, con due gambe, due braccia e un cervello, una personalità, una legge dell’ereditarietà ecc., questo è un fatto piuttosto banale, direi, per lo Spirito, o occasionale se vogliamo, e non deve rappresentare per esso nulla di universale. È un fatto del tutto particolare.

Posta questa precisazione molto importante, sulla questione che avete sollevato circa la non responsabilità dello Spirito nei confronti di molteplici attività umane, oppure se in certi casi sembra convenire allo Spirito essere cosciente e in altri no, devo dire che contro tutte le vostre supposizioni sta di fatto che il corpo umano è essenzialmente materia finché vivete; e questo dato di fatto inoppugnabile è confortato dalle esigenze della vita, che sono in larghissima parte esigenze materiali; e che esse siano variabili in rapporto a tanti altri fattori di ereditarietà, di famiglia, di tendenze, di costituzioni, confermerebbe il fatto che la vita, nel suo svolgersi, cerca di soddisfare queste esigenze di fondo di carattere biologico, educativo e sociale.

Come s’innesta allora in tutto questo la presenza dello Spirito? Anzitutto vorrei dire che usando un vostro linguaggio psicanalitico, inconsciamente nella vostra replica avete immaginato lo Spirito come un abitatore del corpo, secondo la vecchia definizione di uno Spirito che sta “dentro” al vostro corpo. Sapete che anticamente si era parlato addirittura della ghiandola pineale, dove c’era lo Spirito, e poi che forse albergava nel cervello, o nel cuore. La storia di questo Spirito che sta nel corpo deve essere smantellata immediatamente.

D. – No, non è importante e, d’altra parte, non facevo questione di localizzazione…

A. – Non è importante apparentemente, ma voglio dire che la questione in fondo è sollevata almeno parzialmente dalla localizzazione inconscia dello Spirito che, in realtà, non è nel vostro corpo. Posto questo chiarirò, per qualcuno che non ha afferrato la questione, che lo Spirito non sta nel corpo, ma che è in continuo contatto con esso. Cioè, può essere vicino o lontano, ma non è una questione di spazio, è chiaro. Lo Spirito può essere anche a dieci metri di distanza, a cinquanta metri, a cento metri, a un chilometro; non ha importanza. Il fatto importante è che ci sia questo rapporto e che comunque lo Spirito viva insieme a questo corpo. Questo significa, in linguaggio molto banale, che finché vive il corpo lo Spirito praticamente non svolge alcun’altra attività: è soltanto rivolto all’attività del corpo. Bisogna, dunque, tornare al concetto di finalità dello Spirito, cioè del perché lo Spirito viene in un corpo, nel senso che ho detto.

Perché lo Spirito occupa un corpo? Ecco, se noi accettiamo la questione dell’esperienza globale, universale dello Spirito, lo Spirito viene a contatto col corpo per tale ragione, perché in questo momento, sulla Terra, l’apparato materiale più complesso è il corpo umano. Scartando le piante, nell’ambito delle specie animali troviamo che il corpo umano è il più perfetto, il più preciso, il più utilizzabile ai fini che lo Spirito si propone. Lo Spirito ha scelto il corpo umano nel momento in cui si è abitata la Terra, perché esso era quello che rispondeva di più allo scopo. Questo però non significa niente: significa solo che si è utilizzato un corpo. Ma allo Spirito resta sempre presente il fine per cui va ad abitare questa forma più perfetta che è il corpo umano e che, da un punto di vista universale non è già più un corpo umano ma un apparato materiale che funziona e che può servire allo Spirito per penetrare come dire, i segreti un po’ alchimistici di questo Universo. Cioè, per entrare nel cuore, nella radice della Terra e poter dunque assumere certe nozioni, certe cognizioni, certi umori della Terra stessa.

Se così è – ed è così, aggiungerò – è chiaro che tutta quella che è la funzione di questo apparato in rapporto agli altri apparati, cioè la cosiddetta società che poi è sorta, allo Spirito interessa molto poco, perché esso continuerà a servirsi del corpo come un apparato materiale che gli serve per raggiungere certi scopi.

Che poi questi apparati tra di loro siano organizzati, che vivano una loro vita autonoma e che cerchino di qualificare moralmente questa loro vita, è una cosa che allo Spirito interessa relativamente e soltanto per i momenti in cui vive in questi apparati. Subito dopo se ne disinteressa, prova ne sia che, indipendentemente da questo discorso, altre volte abbiamo detto che lo Spirito, infatti, abbandona l’anima e che praticamente sulla Terra non gli interessa più niente; che anzi dimentica tutto.

E se voi interrogate uno Spirito molto evoluto che ha lasciato l’ambiente terreno e gli dite: Sai chi era Giulio Cesare? Non saprà assolutamente dirlo; o chi fosse Pitagora o Platone, non potrà assolutamente rispondervi. Perché Platone, Cesare e Pitagora universalmente non esistono, non sono niente. Sono soltanto degli apparati materiali che in un certo momento storico del tempo umano si sono qualificati e definiti così. Uno Spirito vi corrispondeva,

ma lo Spirito di Pitagora oggi non è più Pitagora, è solo un essere spirituale fatto da Dio, che può avere il suo passato e la sua esperienza, ma che oggi non è assolutamente più Pitagora. Posta in tal modo la questione, per voi potrà essere magari dolorosa, ma è così per lo Spirito.

Si ribaltano così le vostre obiezioni di validità e d’importanza dell’essere umano, in quanto tale in rapporto all’universale. L’essere umano ha valore, in quanto tale, in rapporto all’umanità, ma non in rapporto all’universale. Nel rapporto universale non vale niente perché è un essere caduco, è un essere finito, un essere che muore, che vive ottant’anni e poi scompare del tutto, anche dalla scena umana, e che resta solo nel ricordo dei sopravvissuti, destinato poi a finire del tutto anche in questo ricordo.

Dunque, quale importanza universale si può dare a tutto questo? Invece sembra che restino non più gli individui, ma certe leggi o certi rapporti o certe definizioni che scaturiscono nell’ambito di questa stessa società, e cioè definizioni in base alle quali si giudica l’operato dell’uomo. Si chiamano in causa certe responsabilità, e ci si chiede – appunto come si sta facendo adesso -, ma quali sono le responsabilità dello Spirito? E quali invece le responsabilità del corpo?

Tornando con ordine alla questione, lo Spirito, dunque trova un corpo il quale ha le sue esigenze e del quale esso non può rispondere. Il corpo cresce, il corpo mangia, il corpo beve, il corpo si riproduce, il corpo fa insomma tutte le cose che sono proprie di un organismo vivente. Per queste cose lo Spirito non è responsabile, sia ben chiaro. Ma poiché, naturalmente, moltissime altre attività connesse a quelle fisiologiche sembrano impegnare definizioni di carattere morale, queste definizioni di carattere morale io non le considero tali. Cioè non le considero di carattere morale.

In base a queste necessità di sopravvivenza del corpo, mangiare, bere, riprodursi, l’uomo fa una quantità di altre cose. Sarà costretto a procurarsi un lavoro, a organizzarsi in una società e quindi a sposarsi per potersi riprodurre e avere dei figli in un certo modo. Queste cose naturali, ordinarie, non sono di carattere morale, e tutto ciò non ha alcuna importanza da un punto di vista universale. È una semplice organizzazione di carattere umano che serve a voi ma non allo Spirito.

Ecco qual è il discorso che vi facevo una volta: e cioè se nell’ambito di un matrimonio, o nell’ambito di un’attività non legalizzata, dovesse prevalere una definizione di carattere morale valida solo per coloro che sono sposati regolarmente e non altrettanto valida per coloro che non sono sposati. e io dicevo proprio questo: che allo Spirito non interessano per niente le carte bollate. Ed è chiaro che non può interessare allo Spirito, o a Dio, la vostra carta bollata, perché sarebbe semplicemente ridicolo pensare questo.

Di fronte a Dio (usando questo “di fronte a Dio” con il beneficio d’inventario) ma, in ogni caso, di fronte alla legge di Dio o all’ordine spirituale extra umano, che cosa ha valore?

Ha valore la realtà fondamentale dei rapporti spirituali che cementano due individui di sesso opposto, li fanno stare insieme con amore autentico e spirituale. E di fronte a questo amore cadono tutte le carte bollate e tutte le leggi fatte dall’uomo.

La questione, che apparentemente sembra brutale, ci riporta sempre a una realtà universale a cui tende costantemente il mio discorso. Di fronte a questa realtà universale, la realtà umana non ha alcun valore.

Ora, dunque, quando tutte queste attività, sono collegate in maggior parte alle vostre funzioni sociali e umane, esse sono relative. Vi alzate la mattina, vi vestite in un certo modo, che può essere definito serio oppure poco serio; c’è magari chi cammina nudo e gli si grida allo scandalo e si dice che è in peccato e in colpa; c’è chi veste con troppo lusso e gli si dice che commette una uguale colpa perché c’è gente che non può vestirsi.

Tutte queste cose, a un certo punto, sono definibili anche in senso morale; ma quando effettivamente sussiste nel fondo dell’individuo non già una ragione di carattere biologico o umana (per esempio, l’individuo non può vestirsi perché non ha denaro), ma subentra un orientamento di carattere spirituale, allora è chiaro che il richiamo è dello Spirito, che esiste l’impegno dello Spirito o la sua responsabilità. Ma di fronte alle cose banali, no.

Una volta, per esempio, vi dicevo: credete veramente che lo Spirito stia dietro di voi quando tagliate il pane col coltello? Oppure se usate la forchetta e il coltello per mangiare e avete, non so, la forchetta nella mano sinistra e il coltello nella mano destra? Credete che veramente lo Spirito stia lì, dietro di voi, con gli occhi sgranati a seguire ogni vostra attività e possa essere responsabile se sbagliate il taglio e vi fate saltare un dito, oppure se, per sbaglio, infilate la forchetta nell’occhio del vostro vicino? Credete che lo Spirito possa essere responsabile di queste baggianate? Certamente no, lo capite da voi stessi.

Ebbene, fate un po’ il conto – nelle vostre 24 ore – quali sono le attività che svolgete esclusivamente pro domo vostra, cioè per il vostro corpo, per la vostra società materiale, per le cose, insomma, che riguardano il vostro corpo. Poi fate un inventario delle cose che, a vostro avviso, servono ad arricchire qualche cosa di più profondo dentro di voi, cioè il vostro Spirito. Qualcosa per cui si possa veramente dire: oggi io sono un essere diverso, in me è entrata un’esperienza diversa. Se voi farete questo inventario vi accorgerete che purtroppo siete a mal partito. Cioè che veramente nella vostra giornata, probabilmente, dopo molti anni di vita, avete usato qualche minuto o qualche ora per la vostra anima (Qui intesa in senso simbolico di interiorità. – Nota del curatore.), per il vostro Spirito, ma per il resto no, avete svolto la vostra vita per il vostro corpo; magari per quello di vostro figlio, di vostra moglie, dei vostri amici, ma sempre per un soddisfacimento di carattere biologico, di carattere psicologico che potremmo anche interpretare come affettivo, talvolta.

Ma, vedete, il carattere affettivo merita tutto un discorso a parte, perché si capisce che chi fa dei sacrifici per i propri figli crede che quella sia un’attività spirituale, che io invece nego nel modo più assoluto. Del resto ho sempre portato il banalissimo ma funzionante esempio degli animali, i quali fanno altrettanto con i loro figli pur non avendo uno Spirito.

D. – Ma, ogni attività umana svolta durante l’intera giornata, anche piccola, anche banale, può avere un’implicazione morale. Anche nel momento in cui uno si sveglia e desidera rimanere a letto, e dice no, il mio dovere morale è quello di avere una mia funzione attiva nella società. Anche lì, in quel momento, c’è un’implicazione morale.

A. – Devo aggiungere una cosa. Ho sempre detto che il lavoro deve essere qualificato psicologicamente. È quello che dicevi tu e che ho detto anch’io. Nell’individuo che dice: io lavoro per la società, per il mio prossimo, per dare il mio contributo alla civiltà, il lavoro qualifica e dà esperienza allo Spirito, questo sì. Ma quanti lavorano così? Cioè con questa intenzione di portare un contributo alla civiltà, un contributo al prossimo? Si capisce che questo tipo di lavoro qualifica lo Spirito, ma bisogna che sia intenzionalmente fatto così, altrimenti no, altrimenti resta un fatto di superficie che non entra nel profondo dell’individuo, il quale lavora e sbuffa dalla mattina alla sera perché non gli piace il suo lavoro, perché lo ritiene inutile, perché deve farlo per forza, per mangiare…

D. – Però anche questa e un’esperienza per lo Spirito, perché in definitiva, non solo le cose positive possono andare allo Spirito, ma anche le negative.

A. – Naturalmente, anche le negative. Anche una vita inutile, per assurdo, per lo Spirito è utile. L’inutilità gli dà un’esperienza, gli fa capire almeno la differenza tra utile e inutile, o l’inutilità stessa della vita è stata un’esperienza magari anche qualificante per lo Spirito, nella sua globalità.