IL DIALOGO COME LIBERAZIONE DELL’INTERIORITÀ.

dialogo

D. – A che cosa è fondamentalmente dovuta la crisi attuale dei rapporti interpersonali?

A. – Voi siete abituati a dialogare. Per dialogo voi intendete la forma stereotipa del discorso, cioè il discutere occasionalmente anche con una serie di convenzioni linguistiche. Per esempio voi non siete capaci di parlare tra di voi, e questo discorso va esteso a tutti gli uomini, naturalmente, non soltanto a voi. Non siete capaci di parlare con franchezza estrema e magari brutale.

Naturalmente obietterete che non sempre ciò è possibileperché l’interlocutore può non recepire nella giusta misura il vostro discorso, e scattano le solite difese umane; cioè, così si può offendere l’interlocutore, lo si può condurre a un livello a cui non è abituato ecc. Però tra di voi tutto potrebbe funzionare benissimo se qualcuno assumesse il ruolo, per così dire, di guida del discorso, in maniera tale da consentire anche tra di voi una sorta d’incontro a un livello al quale non siete invece abituati secondo le solite formule occasionali del discorso. In base a queste formule voi dite e non dite, e se dovete dire trovate allocuzioni particolari per non esacerbare il vostro dialogante.

Questo vi allontana, perché fa sorgere sempre il sospetto di un discorso artificioso messo su proprio per occupare il tempo. Invece io credo che andando a fondo di certi problemi e di certe situazioni con chiarezza più esplicita e con un linguaggio soprattutto non costruito, ma naturale, ci si libera da una serie di angosce, di ansie, di problemi e ci si pone di fronte agli altri come davanti a un terapeuta, con l’atto liberatorio che è insito nel fatto confessionale, proprio perché trae da sé quanto di più occulto e di nascosto si era sino a quel momento conservato e che nel solo manifestarsi, sotto una qualsiasi forma di linguaggio, viene portato fuori dal proprio io.

Questa, lo so bene, è l’impostazione di qualsiasi discorso di tipo terapeutico, ma la terapia non funziona soltanto nel momento in cui una persona incontra uno specialista, essa può agire in tutti i momenti della vita e della consuetudine collettiva, quando veramente ci si incontra per stabilire un livello di comunicazione. La comunicazione, badate bene, non è quella che usate voi quando dialogate: la usate solo raramente negli estremi momenti della confessione, cioè quando veramente non ce la fate più a tenervi dentro una serie di problemi, allora esplodete, ma esplodete spesso nella maniera più impervia, incongrua possibile, o con l’ira e con le lacrime, con la commozione, sempre portati al massimo dell’esasperazione, perché indubbiamente avete accumulato tanto e questo tanto deve esplodere nelle forme consuete dell’ira, del pianto ecc. Col risultato che, giunti a quel momento, o tutto il rapporto viene intaccato, oppure la situazione non è più tale da consentire un’analisi, e la comunicazione diventa soltanto uno scontro dal quale una delle due persone, o più persone, escono naturalmente battute. Perché quello che sto dicendo ha valore soprattutto per voi: perché è l’amicizia tra gli uomini, quindi la fraternità, ma in fondo soprattutto perché è l’amicizia a essere basata su questo. Io penso che al di là di qualsiasi rapporto convenzionale tra i due sessi, sentimentale, sessuale, d’affari, di lavoro ecc., la base dovrebbe essere questa amicizia che consente di produrre di più, di produrre meglio, ma soprattutto di salvare l’individuo da tutta una serie di problemi dei quali basterebbe semplicemente parlare per liberarsene.

L’uomo è afflitto da una serie di pudori: vi sono cose che si possono dire e cose che non si possono dire. Vige tra di voi ancora la regola, detta per tanti secoli aurea, che ciascuno i propri problemi se li deve portare con sé, che ciascuno ha i suoi problemi e che non spetta agli altri condividerli e neppure conoscerli. L’inviolabilità del segreto intimo, e via di seguito, con tutta una serie di sciocchezze varie che tendono solo a isolare l’individuo e non a socializzarlo, cioè a non immetterlo in un gruppo sociale.

Punti questi, ferrei per secoli: l’uomo non parlava alla donna tenuta in sott’ordine; i figli non parlavano ai padri e naturalmente i padri non parlavano ai figli; i padroni non parlavano ai servi e naturalmente i servi non parlavano ai padroni. Tutto questo è costato a generazioni e generazioni immensa solitudine, miseria morale e sofferenza; e ha anche contribuito a isolare gli uomini gli uni dagli altri. Ecco perché questo aspetto della solitudine, questo aspetto così grave della vita va superato col tentativo di instaurare in un qualsiasi gruppo che si forma e che funziona, questa libertà di movimento, verbale, fisica; questa libertà d’intendersi su vari piani, in modo da eliminare questo dramma della solitudine, che esiste, anche se sembra superato dagli incontri tra le varie persone. In realtà queste persone finiscono col non comunicare fino in fondo, ma semplicemente ”si parlano” e il parlare è già di per sé costruito con un linguaggio “privilegiato” perché non sempre trasmette i significati, ma trasmette soltanto una serie di modelli culturali dietro i quali spesso c’é il vuoto, non c’è convinzione, non c’è adesione del soggetto a ciò che il linguaggio trasporta.

Ora a questo grosso problema si aggiunge quello di un linguaggio falso, usato semplicemente per creare degli accordi di superficie al di sotto dei quali c’è spesso il silenzio e il vuoto.

Ora sarebbe opportuno, e qui concludo, instaurare anche tra voi una libertà di linguaggio con modelli interiori da esternare, perché questo vi aiuterebbe e creerebbe quell’abitudine al dialogo che è fatto non di parole, ma di significati che vanno portati avanti secondo la vostra libertà e la vostra capacità, e che formano quello Spirito di fratellanza a cui alludono i mistici. Infatti, voi noterete che attraverso la storia i grandi mistici o santi, i personaggi più famosi che costellano le religioni umane sono sempre stati estremamente sgraditi perché il loro linguaggio era semplice al punto tale da diventare offensivo, e senza andare molto lontano basta rileggere tanti brani del Vangelo nei quali il Cristo, come suol dirsi, era al limite dell’offesa personale. Il Suo linguaggio era intessuto con rara semplicità e andava diritto a colpire senza sovrastrutture.

Potremmo dire che questi individui, estremamente semplici nella loro struttura mentale, non ricorrevano a un linguaggio mistificante perché non ne erano culturalmente padroni? Questa obiezione è valida sino a un certo punto: diciamo anzitutto che essi non accettarono il linguaggio mistificato del proprio tempo. La loro natura li spingeva a usare con estrema semplicità quella che per altri era una violenza verbale, ma che per essi altro non era se non il linguaggio semplice della verità che andava detta comunque. Non soltanto la verità ultraterrena, ma quella di tipo umano che poteva anche rasentare l’ingiuria. E anche nel gesto, anche nel comportamento la cosiddetta violenza usata da molte di queste grandi figure in realtà cosa aveva dietro? Aveva semplicemente il desiderio, la necessità, il bisogno di ripristinare un ordine che era stato alterato e che andava ripristinato con la stessa semplicità del linguaggio, cioè col classico e vecchissimo modo di “scacciare i mercanti dal tempio”.

Ora però, indubbiamente, un linguaggio o una volontà del genere, a seconda dei casi, vanno compresi in un’atmosfera nella quale i singoli membri sono abituati a essi, li desiderano, li cercano, sapendo però, anzitutto, che al di là del linguaggio c’è l’autentico desiderio di trasmettere una cosa giusta e che non è un linguaggio usato soltanto per una sopraffazione. Ché, in questo caso, è logico, i deboli perderebbero sempre e coloro che hanno un linguaggio più forbito o più violento finirebbero sempre col vincere.

In realtà, se vogliamo, è da questo accordo a un determinato livello che sorge e si modella il linguaggio autentico, alcuni direbbero del cuore, mentre possiamo dire più compiutamente che esso è quello di tutto il vostro essere che si manifesta come lo Spirito, dalla bocca o nel gesto, cioè attraverso i sensi, gli unici elementi rappresentativi che trasmettono una comunicazione del pensiero.

Questo è quanto volevo dire, a voi la parola.

D. – Per fare questo però ci vuole la reciproca buona fede. Ho notato che in tutti questi anni, quando c’è stato un nodo da sciogliere, quasi sempre tu non hai dato né ragione né torto, cercando l’accordo su di un punto medio. Questo dovrebbe essere un’indicazione per noi?

A. – L’indicazione è questa;: è vero, io non ho mai assegnato i ruoli della ragione e i ruoli del torto. Salvo qualche caso specifico in genere ho tenuto questo comportamento, perché in realtà nessuno ha torto e nessuno ha ragione. Questo significa semplicemente che chi ha torto non ha torto in assoluto, perché è stato mosso da una serie di istanze che semmai vanno analizzate e studiate. Se tu dai uno schiaffo a un altro sei mosso da un certo impulso: io non analizzo il tuo schiaffo, ma il tuo impulso. Mi chiedo perché hai dato quello schiaffo, che cosa ti ha mosso. D’altra parte, se l’altro riceve lo schiaffo e non reagisce, analizzo il perché non ha reagito. Può darsi che tu abbia mille ragioni, così come lui può avere mille torti o mille ragioni nel non rispondere allo schiaffo, cioè si va al di là del gesto. In prima istanza non si dà mai un giudizio: questo vale non soltanto in campo morale, ma anche in campi più terra terra, come nel caso per esempio di certe malattie, di certi comportamenti nevrotici: laddove cioè vi sono delle precise cause di tutto ciò. Il buon giudice ascolta e tace quanto più è possibile. Ma siccome qui non si tratta di tirar giudizi, a voi fa bene il semplice parlare non l’accusarvi, perché forse è qui che c’è l’equivoco. In genere, nel momento in cui si dovesse dire tutta la verità, tutto quello che si pensa, immediatamente un consesso diventerebbe una bolgia d’accuse. L’uno accuserebbe l’altro, cioè si partirebbe immediatamente da una situazione negativa dalla quale poi, chiaramente, sarebbe difficile uscire. Ma se invece di accusarvi poteste semplicemente comunicare i vostri bisogni, le vostre esigenze, le vostre necessità di associarvi, di funzionare come un gruppo omogeneo, di prospettarvi un avvenire, di mettere a nudo i vostri problemi più interiori, più complessi, più intimi, dopo, vi assicuro, qualora dovesse venire il momento delle accuse, anzitutto voi non avreste più il coraggio di accusare nessuno, perché dovreste accusare una persona della quale ormai sapreste i fatti, e riuscireste ora a capire le motivazioni per cui essa ha agito in un certo modo. Cioè, quando ci si conosce veramente ogni accusa cade perché si comprende la motivazione del comportamento altrui.

In fin dei conti il dialogo serve a capire gli altri, serve ad abituarsi alla comprensione dei gesti, delle parole e dei comportamenti altrui. Per cui, quando voi formulate dei problemi, oppure se c’è una controversia, io conosco già i motivi che spingono gli uni e gli altri e so che vi sono torti e ragioni da distribuire. Tu potrai dirmi che questo è una sorta di giudizio che salva tutti e in effetti nessuno, perché nessuno si metterebbe di fronte alle proprie responsabilità se io gli dicessi che il torto è dalla sua parte. Perché tra due persone che litigano e che vengono a dirmelo per sanare il problema, se io dicessi a uno: tu hai torto – direi proprio quello che l’altro per il suo amor proprio vorrebbe sentir dire -, e in questa maniera creerei un’ingiustizia perché non farei altro che alimentare l’amor proprio, l’orgoglio, la consapevolezza di una superiorità che magari non c’è e metterei psicologicamente in una tremenda difficoltà colui che magari non ha veramente torto, oppure che ha torto solo perché c’è un intreccio di cause a monte che lo ha portato a questo. Anche il peggiore dei delitti non può essere condannato ciecamente, ma deve essere giudicato in base a tutte le sue premesse, molte delle quali sono sconosciute alla stessa persona che ha compiuto il delitto. Ciò significa che tutti vengono assolti. E questa è una legge eterna, naturalmente, che vige qui nel mio mondo e che dovrebbe vigere anche sulla Terra, o almeno in coloro che capiscono. Non c’è il giudizio di un Dio, e, se non c’è, potrei mai giudicare io le vostre piccole azioni quotidiane? È preferibile che ognuno capisca da sé. Non tutti capiranno, mi dirai, e questo è vero, ma a noi non interessa la questione tempo, perché, indubbiamente, chi ha torto col tempo finisce col capire anche i suoi errori.

In ogni caso questo non c’entra molto con quello che io dicevo, appunto perché non si tratta di fare delle accuse, non si tratta di dare dei giudizi, ma si tratta di comunicare, il che è una cosa diversa.

Ognuno di voi ha i suoi problemi e spesso di essi non parla con nessuno, e questi sono i problemi consapevoli; ma l’uomo ha anche una quantità di bisogni, di desideri e di problemi che neppure lui stesso conosce, ma che agiscono sul suo comportamento in maniera che il soggetto si comporta esattamente come vorrebbero i suoi bisogni, soltanto che non avendoli riconosciuti egli li segue in maniera abnorme o disordinata, determinando nuovi conflitti in sé e con gli altri; Appunto perché non conosce se stesso e non sa che le forze che sono in lui agiscono lo stesso, ma in maniera completamente assurda, scoordinata. Questo un po’ perché il vostro Spirito porta con sé, non soltanto i suoi problemi spirituali, ma anche il suo programma e questo programma spesso esso non riesce a realizzarlo. E vi sono delle tensioni, vi sono dei “segnali”, come li abbiamo definiti molte volte, che agiscono, che ci sono perché lo Spirito è lì, e questi segnali (più tutte le cose che avreste potuto fare e non avete fatto) a un certo punto della vita vengono fuori e producono una continua insoddisfazione dell’esistenza.

Siete insoddisfatti perché non riuscite a fare tutte le cose che, dentro, oscuramente sentite. Molte altre non le sentite, ma oscuramente avvertite con contorni indistinti che le dovreste fare e non potete. Questo perché non conoscete voi stessi, e allora accade che non avete né il coraggio di farle, né sapete prendere le decisioni giuste perché credete che la realtà sia tutta quella del vostro presente, e invece c’è anche una realtà “dentro”, ma voi non fate niente per conoscerla, non volete neppure provarla, collaudarla, tentare gradino per gradino di verificarla, per vedere se è vero che i desideri, i bisogni, le idee sono lì e che sono vostri. Avete paura dell’avventura, avventura nel senso di sperimentare cose nuove, e passate le vostre giornate a ripetervi continuamente, a fare le stesse cose, le stesse rinunce, ad avere gli stessi problemi, naturalmente con gli stessi dolori e gli stessi traumi.

In realtà si tratta di quel vecchissimo discorso del “conoscere sé stessi” che può ritornare nelle forme più moderne e scientifiche, ma che resta – come nucleo – fondamentalmente nient’altro che la solita affermazione delfiana, il “conoscere te stesso”. E questo conoscere sé stessi, diciamo, è il nucleo, il nodo di tutto il problema esistenziale, nevrotico, fisiologico, sociale. Tutto ruota lì intorno. E finché non conoscerete voi stessi non saprete neppure quanto valete, che cosa siete, chi siete, quanto pesate sulla bilancia della vita. Non lo saprete mai. Naturalmente il conoscere sé stessi vi fa entrare anche in conflitto, prima con voi stessi, poi con gli altri. Questo è indiscutibile. Bisogna pur pagare qualche prezzo, cercando che il prezzo non sia troppo alto, ma bisogna pur pagare qualcosa per riconoscersi. Ma spesso, vi assicuro, non si paga neppure niente. È che voi avete paura della vostra ombra, avete paura di tutte le decisioni che prendete, avreste bisogno di un maestro reale, concreto, alle vostre spalle, ma questo significherebbe trasferire sugli altri le proprie decisioni e le proprie responsabilità. Ora, per conoscere sé stessi non c’è solo il metodo della meditazione, che anzi esso serve poco in molte circostanze, ma c’è anche quello dell’incontro, dell’incontro/scontro che è una delle tante possibili strade. Non avendo dei maestri che siano capaci di analizzarvi sino in fondo, non avendo delle guide spirituali con le quali potete dialogare, non avendo dei confronti culturali perché la cultura aiuta, sì, ma spesso distrugge, in realtà c’è il metodo, uno dei tanti, dell’incontro con gli altri; purché, naturalmente, quest’aspetto “confessionale”, nel contempo mistico e analitico, sia fatto con la consapevolezza di voler conoscere questo se stesso attraverso gli altri. Perché, guardate, conoscendo i problemi degli altri, i desideri, i bisogni, le sconfitte, le necessità, le azioni degli altri, voi automaticamente siete portati a verificarli in voi stessi. Cioè, quando ascoltate qualcuno, immediatamente analizzate la verità dell’altro introiettandola, portandovela dentro. Dite: “Ma anch’io faccio così, anch’io ho bisogno di questo”. È una sollecitazione che nasce poi, guarda caso, da un principio universale che è al di là dell’uomo: il principio in base al quale le idee si sviluppano nella struttura dello Spirito via via che esso incrocia determinate strutture universali. È un po’ il principio secondo cui tutto in voi è potenziale e nasce e si amplia e si manifesta via via che le sollecitazioni esterne lo maturano.

Le sollecitazioni dell’uomo sono la vita, ma la vita in sé non basta, perché essa è costituita anche dagli uomini e quindi è anche dall’incontro con altri esseri umani che nasce questa complessa consapevolezza.

D. – Per poter stabilire un dialogo con chiunque e ovunque, come prima cosa occorre avere, non dico la certezza, ma una sorta di speranza che ci sia lealtà, che si trovi lealtà nella persona con la quale si parla. Ma questa è una cosa che è difficile a trovarsi e spesso essa non c’è neanche in noi, in me che voglio parlare con l’altro. Cioè diventa una remora fortissima.

A. – Spesso i problemi nascono da una certa personalità, ma appena manifestati si spersonalizzano, diventano soltanto un problema occasionalmente legato a chi lo manifesta; in realtà esso è un problema che, discusso collettivamente, non serve più a chi l’ha proposto, ma a tutti. È in questo senso che si supera la questione della stima; con la discussione di un problema.

È chiaro che deve esistere quel minimo equilibrio in base al quale non sia sconfessato chi si confessa, per così dire. Ecco la liceità di un rapporto che si basi almeno sulla stima e l’ostacolo è senz’altro superato. In ogni caso io credo che sia una cosa possibile e, comunque, io vi ho voluto riproporre un’altra volta questo problema affinché meditiate e affinché possiate discuterlo per vedere se è possibile superare questa sorta di grosso pudore umano che vieta di parlarvi, come si conviene a uomini che almeno conoscono l’esistenza di questo problema e la necessità di superarlo.

D. Il problema sta anche nell’interesse che può avere un altro per il problema che in quel momento ho io.

A. – Ma, vedi, gli uomini s’incontrano e si uniscono sempre per interessi comuni. È chiaro che questo discorso ha senso e valore soltanto in gruppi che s’interessano a questi problemi.

È evidente: se essi non hanno questo interesse non vi ascolteranno neppure. Questo mi sembra implicito: che ci sia dell’interesse tra voi, tra le persone che intendono far questo, altrimenti il discorso è chiaramente inutile. D’altra parte bisogna che ci sia anche l’interesse a svolgerlo a un certo livello, perché può darsi che ci sia un gruppo che intenda discuterlo a questo livello e, contemporaneamente, un altro gruppo che intende invece discutere altri problemi che a voi non interessano. Naturalmente possiamo far questo parlando di problemi esistenziali, cioè di problemi a livello della struttura mentale, di problemi della vita. Ad altri livelli gli uomini s’incontrano magari per discutere di cose più futili e anche in questi casi le loro conversazioni possono diventare atti liberatori.

D. – I meccanismi di difesa che si manifestano a livello psicologico recano in realtà uno pseudo-problema, perché così si prende in giro sé stessi.

A. – Sì, può darsi, per un poco, sì. Diciamo allora, volendo perfezionare il discorso, che un gruppo del genere presume delle cognizioni, qualcuno che faccia da guida, che sia capace almeno di deviare il discorso su fatti essenziali. D’altra parte, vedi, io credo che sia un problema grave. Per esempio, a volte quando voi formulate una domanda io capisco benissimo che essa, pur essendo formulata in senso generico, in realtà è personale. Questo è molto chiaro, perché determinati problemi che vengono posti qui sotto forma di domande, diciamo culturali, filosofiche, in realtà nascondono un problema personale. Lo si capisce benissimo. Così come si capisce benissimo che se qualcuno interviene per contraddire un altro o per chiarire meglio è perché in quel momento ha un altro problema suo personale, che io individuo perfettamente. Perché nella maniera in cui viene posta la frase è scopribile con estrema semplicità tutto un meccanismo di difesa, come tu l’hai chiamato. Dunque se questo è possibile a me sarà possibile anche a voi. Perché, vi assicuro, non esercito nessun potere spirituale per capire questo, semplicemente sono un attento osservatore o ascoltatore, anche della vostra struttura linguistica, cioè riesco a scoprire la ragione di quella certa costruzione. Questo è un fatto che potete benissimo fare anche voi. Basta abituarvi, non è una cosa difficile. Si capisce, occorrono certe doti di fondo, anche delle buone conoscenze tecniche, una sensibilità psicologica, attenzione, vigilanza autocontrollo. Ma questo accadeva anche in tempi antichi quando una persona polarizzava l’attenzione degli allievi e diventava poi il maestro, o lo psicologo come direste voi oggi, che una volta non esisteva perché il maestro riassumeva in sé tutte queste capacità, queste doti, e veniva perciò riconosciuto come maestro di vita e di cultura. Di vita soprattutto, di saggezza e questa saggezza se l’era fatta nell’incontro con gli uomini, con lo studio, con la meditazione, con l’osservazione. Io non so perché voi non siete capaci di far questo, quando non è poi necessario raggiungere grandi capacità introspettive e deduttive, ma bastano buoni livelli per poter agire positivamente in un gruppo sociale, in una società, in un ambiente…